Il nome Brics lo inventò Terence James O’Neill, barone di Gatley, un economista britannico di Goldman Sachs, non precisamente un socialista. Erano i primi anni 2000, anni di turbocapitalismo finanziario in cui gli Stati uniti invadevano allegramente l’Afghanistan in cerca di terroristi e poi l’Iraq in cerca di armi di distruzione di massa e di petrolio garantito. Il pianeta unipolare gonfiava le borse e le tasche dell’Occidente oltre ogni limite o decenza. Non durò.

Uscirono tutti con le ossa rotte dalla grande crisi del 2008 – quella dei mutui subprime e del crollo di Lehman Brothers. A quei quattro paesi emergenti uniti da un accordo che erano i Bric, Brasile Russia India e Cina, nel 2009 si unì il Sudafrica ed ecco l’acronimo contemporaneo. Dalla grande recessione del 2008, i Brics uscirono meglio degli altri. Persero meno. Finanziarono grandi piani di stimolo all’economia, in alcuni casi giganteschi. Si costruirono una banca di sviluppo. Avviarono estesi scambi commerciali e un certo livello di reciprocità, invece di invasioni proposero strade e ponti (certo ben ricompensati). Diventarono appetibili.

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Ieri i cinque Brics originari hanno accettato, per così, dire, l’iscrizione di altri paesi, dall’Arabia saudita all’Iran passando per Emirati, Etiopia, Egitto, Argentina. Altri seguiranno. Ora sono il 35% del pil mondiale e il 46% della popolazione del pianeta, un sud globale di cui la guerra in Ucraina e il conflitto Usa-Cina ha accelerato lo schieramento. Quindi il resto del mondo ha smesso di ignorarli e le centrali di pensiero occidentali hanno preso a criticarli: non dureranno, non riusciranno. Non prevarranno.

I nuovi Brics hanno economie compatibili, desideri politici collimanti, ambizioni geopolitiche convergenti? Rappresentano alternative al capitalismo? Neanche per sogno, naturalmente, né il loro accordo è blindato, la campagna acquisti è già iniziata e l’India è corteggiatissima. Un tratto unitario ce l’hanno: si sono irrimediabilmente stancati della supremazia predatoria dell’Occidente democratico, dei paesi che lo guidano (gli Usa), delle istituzioni che ne esercitano le prerogative (il G7, la Banca mondiale, il Fondo monetario).

Raramente sono democrazie, praticano le disparità sociali come e meglio di noi, sono robustamente nazionalisti e sviluppisti. La decrescita felice è veleno perché alla crescita si sono appena affacciati, e ne vogliono una porzione adeguata. Non sono i Non allineati perché non c’è un mondo bipolare, e Johannesburg non è Bandung.

Ciò detto, è bene che qualcuno sfidi il dollaro sul suo terreno, che è il mondo. È bene che il finanz-capitalismo a trazione unica conosca altri trattori, o detrattori, di sufficiente massa critica. Opporgli il nostro status democratico non basterà, di quella democrazia che ci è preziosissima dovremmo fare qualcosa di meglio che declamarla. Molto di meglio. Perché quelli di cui si sono stancati, con mille e una ragione, siamo noi.