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Sundance tre anni dopo. Incorniciato da montagne bianchissime (a Park City non nevicava così tanto dal secolo scorso, dicono i residenti) e sotto la direzione di una nuova leadership, la creatura/creazione di Redford torna in presenza, dopo due edizioni virtuali. Nell’aria, un mix di eccitazione e trepidazione – per il destino del festival, indebolito come tanti altri, dalla pandemia, e perché Sundance è un termometro dello stato di salute dell’industria del cinema indipendente, specialmente ma non solo quello americano. Alcune cose sono rimaste le stesse – la calata di spettatori infagottati di nero che, nelle strade e nei locali, sostituisce i colori vivaci del turismo sciistico; la lotta per i biglietti; l’esercito di volontari con le giacche a vento di Kenneth Cole; l’atmosfera di suspense che circonda la prima dei film più attesi, con i buyers principali avvistabili nel pubblico.

QUA E LÀ, però, emergono segni di cambiamento. A livello simbolico, il più evidente si è registrato nella serata di apertura quando, alla rituale apparizione con cui Robert Redford dava il via al festival, nella vasta sala dell’Eccles, si è sostituito un video messaggio – tra il sepolcrale, il pragmatico e il commovente- in cui la voce del fondatore, fuori campo, su immagini delle montagne che circondano Park City e vecchie foto della Main Street, salutava il pubblico e ricordava come la sua idea del festival sia nata dal luogo geografico in cui si è tenuto tutti questi anni (dietro alle quinte pare che – tra le altre cose – si parli di spostarlo in un posto più accessibile). Sundance ha una grande storia ma il passato è passato, i tempi sono cambiati e bisogna guardare al futuro – è stato in effetti il succo del breve discorso offerto quella sera dal Ceo del Sundance Film Institute, Joanna Vicente (nominata nel 2021) – forse in leggera polemica con le critiche sporte dagli agenti di vendita e dai distributori Usa- contro la scelta di garantire anche un accesso virtuale al festival 2023, seppure più limitato di quello di cui gode chi è qui a Park City.La storia del businessman coreano Youngun Kim che nell’East Village newyorkese, aprì il primo di quella che sarebbe diventata una catena di otto leggendari videostore
Altra novità sempre per la serata d’apertura – è l’istituzione di una cena/cerimonia autocelebrativa, A Taste of Sundance, chiaramente pensata per la gratificazione di sponsor e benefattori, con premi che hanno portato a Park City autori di rilievo internazionale che hanno una storia con il Sundance, come Ryan Coogler e Luca Guadagnino. Aggiustamenti significativi anche rispetto alle sale, diminuite di due a Park City (dove in gran parte vanno allestite da zero, e quindi costano molto) ma con proiezioni aggiuntive nei cinema di Salt Lake City e nei multiplex a una quindicina di chilometri dal cuore del festival.

QUASI IMMUTATA, invece, la struttura del programma, anche se è sceso il numero dei film in concorso, salito quello delle Premieres ed è stata ridotta all’osso la sezione New Frontier (amata da Redford) che quest’anno non prevede allestimenti. Eliminata completamente, almeno per quest’anno, la virtual reality. Mentre c’è una forte sovrabbondanza di incontri pubblici «a tema», promossi da vari sponsor in curiose collaborazioni con gruppi di advocacy (attivismo) progressista.
Celebrazione di uno spirito d’indipendenza più anarchico di quello storicamente coltivato dal festival, e uno dei film migliori dell’opening night (in rappresentanza della sezione Next, quella più libera) è stato Kim’s Video, di David Redmon e Ashley Sabin, giovani docuavventurieri con alle spalle una vasta produzione di corti passati in festival come Rotterdam, Vienna e Visions di Reel, oltre che a Sundance e al Moma. Il loro ultimo lavoro – un incrocio, tra il film d’inchiesta, Godard e il tono picaresco del primo Michael Moore – parte nel fatiscente East Village della New York anni Ottanta dove il businessman coreano Youngun Kim chiusa la sua lavanderia (dove offriva anche una piccola selezione di videocassette bootleg) per aprire il primo di quella che sarebbe diventata una leggendaria catena di otto videostore.

LA SEDE PRINCIPALE strategicamente situata su St. Marks Place, Kim’s video diventò culto grazie alla sua gioiosa qualità onnivora – trash, arte, vecchio, nuovo, fiction non fiction, legale e illegale (a un cero punto, per via dei bootleg, gli mandarono l’Fbi), in alta o bassissima definizione e da tutte la parti del mond – che attraeva cinefili e, come nel caso di Tarantino al videostore Long Beach, plasmò la metamorfosi, da commesso a filmmaker, di autori newyorkesi come Alex Ross Perry, Robert Greene e del direttore della fotografia Sean Price Williams. Da Kim’s si andava per cercare un titolo e si tornava a casa con altri dieci film, di cui non sapevi nemmeno l’esistenza. Nel 2008, quando – incalzato dai cambiamenti dell’industria – Kim annunciò la chiusura, il suo catalogo comprendeva 55 mila titoli che, inspiegabilmente, invece di essere assorbiti in qualche università americana, finirono a Salemi in Sicilia, su sollecitazione dell’allora sindaco Vittorio Sgarbi. Metà di Kim’s Video si svolge infatti a Salemi (non lontano da Corleone, ci fa notare il voice over, sulle immagini di Il Padrino) dove Redmon si reca per vedere cose è successo alla collezione e, «salvarla». Il tono simpaticamente canagliesco, con un gusto per la caricatura del meridione italiano a cui collaborano almeno in parte anche le autorità di Salemi, e un po’ meno lo stesso Sgarbi, il documentario di Redmon diventa altro quando il regista – con la collaborazione dell’elusivo Mr. Kim – ordisce un pieno per riportare a casa la collezione. Ispirato da Argo.