Visioni

Sundance, il gotico americano alla ricerca di nuove forme

Kristen Stewart e Katy O'Brian in «Love Lies Bleeding» di R. GlassKristen Stewart e Katy O'Brian in «Love Lies Bleeding»

Cinema «Presence», il nuovo film di Steven Soderbergh, e il ritorno di Rose Glass «Love Lies Bleeding» al festival di cinema indipendente. Una casa infestata, il punto di vista dello «spirito», l’influenza di Tarantino

Pubblicato 8 mesi faEdizione del 23 gennaio 2024

Nel 1989 la proiezione di Sesso, bugie e videotape, qui al Sundance, fece di Steven Soderbergh una stella instant del cinema indipendente Usa. Due anni dopo, il regista tornava a Park City con Delitti e segreti (Kafka). Nel carosello di diapositive che precede ogni proiezione, c’è una foto di Soderbergh (targata 1989) in cui sembra quasi un bambino. La connection con il passato, dettata dalle celebrazioni dell’anniversario del festival, rende ancora più interessante vedere quanto, da allora, è cambiato il cinema del regista (che, dopo aver rimontato Kafka più volte – l’ultima l’anno scorso, tagliando una ventina di minuti e cambiandogli il titolo – lo definisce «un film che solo un giovane regista stupido può fare»).
Da quelle origini parlatissime e anche un po’ pretenziose, il suo lavoro si è evoluto in una dimensione progressivamente più essenziale, astratta e accentata sulla dimensione fisica e spaziale del cinema. È in questa stessa vena il suo ultimo film, Presence, proiettato in prima mondiale nella sezione Premieres, una ghost story con casa stregata, scritta da David Koepp (già autore del film precedente del regista, Kimi) e ispirata almeno in parte a un’esperienza diretta di Soderbergh e di sua moglie Jules, in una casa dove hanno vissuto, forse abitata dal fantasma di una donna morta lì.

«Presence» di Steven Soderbergh

La «presenza» che dà il titolo al film esiste senza ombra di dubbio, fin dalla prima inquadratura, all’interno di una vecchia, grande casa vuota in stile «Arts and Crafts», con i muri dipinti di colori vivaci. Il film è infatti interamente raccontato dal punto di vista dello spirito inquieto che, da un armadio un po’ come quello di Halloween, dove sembra aver trovato rifugio, saetta tra le stanze e su e giù per le scale. Attraverso l’occhio della «presenza», avvistiamo dalla finestra un agente immobiliare (Julia Fox) che scende dall’auto e si affretta verso la porta d’ingresso, seguita poco dopo da una famiglia. Per Rebekah (Lucy Liu), la casa è un amore a prima vista – suo marito Chris (Chris Sullivan) e i figli Tayler (Eddy Maday) e Chloe (Callina Young) non hanno voce in capitolo. Entro uno stacco o due, i Payne si sono comodamente installati nell’abitazione, insieme al fantasma, di cui Chloe – la cui migliore amica è appena morta, forse di overdose – avverte l’esistenza.

SODERBERGH addotta una premessa classica dell’horror gotico, facendola sua con il capovolgimento del punto di vista. La sfida tecnica (intorno a cui girano molti dei suoi film più recenti) di The Presence è quella di risolvere ogni scena in un lungo piano sequenza mantenendo alta la suspense senza mai permettersi il sollievo di un controcampo. Il risultato di questa nostra intimità forzata con il fantasma è un senso di apprensione al quadrato – per la potenziale minaccia che aleggia sulla famiglia, ma anche per un’affinità emotiva con lo spirito, che a tratti sembra confuso e indeciso sul da farsi.

Al polo opposto del film di Soderbergh, che è limpido e concettualmente stringato, c’è il secondo lavoro della regista inglese di Santa Maud, Rose Glass, presentato nella sezione dei film di Mezzanotte, che però quest’anno iniziano alle 22 (della serie, anche al Sundance si invecchia).

ATTESISSIMO (sarà nelle sale Usa l’8 marzo) e già annunciato fuori concorso a Berlino, Love Lies Bleeding rientra nel filone dell’americana filtrata dallo sguardo europeo di cui fanno parte Bones and All e molto cinema di Nicolas Refn. In un’edizione ricca di titoli che flirtano con il genere e forzano i limiti del mainstream indie codificato dalle edizioni del festival degli ultimi dieci/quindici anni, anche Glass – come Anna Bowden e Ryan Flack – guarda alla paternità spirituale di Quentin Tarantino per questa sua storia di amour fou lesbico, culturismo e crimine, ambientata in una scassata cittadina del New Mexico, negli anni ottanta.

Kristen Stewart è Lou, manager di una fetida palestra che scopriamo essere di proprietà di suo padre (Ed Harris), un orco dai capelli lunghi fino alle spalle che possiede anche un poligono di tiro, dietro a cui nasconde un’attività di export di armi e parecchi cadaveri seppelliti in una gola del deserto. La depressa routine di Lou (che incontriamo mentre sta sturando con le mani il water della palestra, e che fuma come una ciminiera) viene improvvisamente ravvivata dall’apparizione di Jackie (Katy O’Brian), aspirante culturista dall’Oklahoma, con una nascosta vena rabbiosa che la trasforma in un incrocio tra la donna alta cinquanta piedi del cult film di Nathan Hertz (The Attack of the Fifty Foot Woman, 1958) e l’incredibile Hulk.

Tra le due scoppia una fiammeggiante storia di sesso e amore da cui scaturisce però anche una catena di incidenti che coinvolgono la sorella di Lou (Jena Malone), il suo manesco marito (Dave Franco), una ex amante e – alla fine di un tunnel che si fa di minuto in minuto sempre più buio – il temibile papà. Stewart e O’Brian – una tutta spigoli, l’altra pneumatica – sono ottime nel crescendo sempre più paradossale di gore. Come loro il resto del cast. Ma in questo film ben fatto, molto hip e spesso divertente, manca un’anima, e un’idea di fondo. Il luogo e il genere di riferimento poco di più di strumenti decorativi. Il che è un peccato: per rendere giustizia al gotico americano, in tutta la sua irrazionalità splatter (letteralmente e metaforicamente parlando) bisogna conoscerlo e sapere amarlo almeno un po’.

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