Sull’unione bancaria europea pesa il potere delle lobby
Riforme Le nuove norme aprono la strada all’integrazione comunitaria e consentono di intervenire quando un’isitituzione sistemica è sull’orlo del collasso. Ma non separano l’attività speculativa da quella commerciale. Chi pagherà i salvataggi?
Riforme Le nuove norme aprono la strada all’integrazione comunitaria e consentono di intervenire quando un’isitituzione sistemica è sull’orlo del collasso. Ma non separano l’attività speculativa da quella commerciale. Chi pagherà i salvataggi?
Il 15 settembre 2008, con il fallimento di Lehman Brothers, scoppiava in tutta la sua virulenza la crisi finanziaria originatasi nel settore dei mutui ad alto rischio. A distanza di cinque anni, cosa è stato fatto in Europa dell’agenda di riforme proposte da chi aveva colto nel segno? L’Ue ha innanzitutto creato una serie di apparati regolatori dalle sigle suggestive ma dall’impatto scarsamente incisivo (European System of Financial Supervision, European Systemic Risk Board, European Insurance and Occupational Pensions Authority, European Banking Authority). Alla fine del 2013, tuttavia, un passo significativo è stato fatto con la messa in cantiere dell’unione bancaria. Essa si compone di tre pedine fondamentali: la ridefinizione di regole comuni prudenziali, volte a una applicazione consistente dell’accordo Basilea III; il trasferimento in capo alla Bce dei poteri di supervisione dei grandi gruppi bancari; infine, la creazione di un Meccanismo unico di risoluzione. L’ambito di applicazione dei nuovi strumenti è composta dall’area euro più i Paesi che intendano aderire.
Dal punto di vista della Commissione, la ratio delle norme è duplice: da un lato evitare che la frammentazione normativa impedisca l’integrazione all’interno del mercato comune, dall’altro creare un meccanismo capace di intervenire in modo rapido, identificando ed eventualmente ponendo in liquidazione gli istituti in situazione critica. Il concentrarsi sui grandi gruppi (posti sotto il diretto controllo della Bce) servirebbe ad assicurare velocità e incisività nell’azione quando a essere toccata sia un’istituzione sistemica, il cui collasso potrebbe far tremare l’intero sistema finanziario.
Un primo elemento di criticità sta nella sostanziale comunanza d’intenti della Commissione e delle principali lobby finanziarie. Il 5 giugno del 2013, l’Institute of International Finance (una lobby bancaria) chiedeva a gran voce l’armonizzazione delle norme e della regolamentazione a livello internazionale. In effetti, dal punto di vista del settore finanziario un’integrazione crescente permette economie di scala e di rete e quindi il raggiungimento di profitti più alti. Se è vero che simili guadagni di efficienza sarebbero in via teorica auspicabili una volta tradotti in migliori condizioni per i risparmiatori, è assodato che simili considerazioni sono una pia illusione: l’unica soluzione possibile è intervenire in modo radicale, limitando la possibilità di concentrazione e la separazione netta tra le attività di credito standard (depositi e prestiti all’economia reale) e le attività speculative proprie delle banche d’investimento. Anche laddove il Meccanismo fosse efficace, esso sarebbe perverso: in presenza di fallimenti di enti sistemici, la via d’uscita non può che essere l’assorbimento da parte di altri enti sistemici, generando ulteriore criticità nel sistema. Lo stesso giudizio negativo si può esprimere sull’armonizzazione delle regole, più che altro per i limiti di Basilea III: Lehman Brothers avrebbe passato il test di capitalizzazione cinque giorni prima di fallire.
Infine c’è la liquidazione: le nuove norme prevedono la creazione di un Fondo unico di risoluzione. La notizia positiva è che non si tratta di un fondo di salvataggio, nel senso che interverrebbe solo una volta esaurito l’8% di passività e fondi dell’istituto, e che comunque dovrebbe essere finanziato (a regime, cioè nel 2023) dal settore finanziario stesso in misura pari all’1% dei depositi garantiti. La notizia negativa è che potrebbe essere spuntato, nel senso che le risorse potrebbero essere insufficienti e la transizione troppo lunga (addirittura si prevede la possibilità di estenderla da 10 a 14 anni). In tal caso, a intervenire sarebbe probabilmente il Meccanismo europeo di stabilità, con soldi dei contribuenti e con la solita lista di riforme in cambio dei prestiti.
Rispetto agli altri provvedimenti che si dovrebbero adottare, per il momento si tratta di buone intenzioni. Una proposta di tassa sulle transazioni finanziarie è stata formalmente approvata dal Parlamento europeo a giugno dell’anno scorso. Sul tema cruciale della separazione tra attività commerciali e attività speculative la Commissione ha formulato una proposta alla fine di gennaio. Sul sistema bancario ombra siamo solo alla fase di definizione di un percorso, basato sulla Consultazione fatta dalla Commissione nella primavera del 2012. Insomma, riforme timide, in ritardo, a volte addirittura rischiose e che in ogni caso non svoltano né rispetto alla centralità della finanza nell’economia, né rispetto all’enfasi tecnocratica.
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