Sulle tracce del Big Bang e dei pianeti extrasolari
Nobel Il premio per la Fisica al cosmologo canadese James Peebles e ai due astronomi svizzeri Michel Mayor e Didier Queloz. Premiati ancora una volta tre uomini, nessun riconoscimento per il lavoro delle scienziate
Nobel Il premio per la Fisica al cosmologo canadese James Peebles e ai due astronomi svizzeri Michel Mayor e Didier Queloz. Premiati ancora una volta tre uomini, nessun riconoscimento per il lavoro delle scienziate
È la quarta volta in vent’anni che l’Accademia reale delle scienze di Stoccolma premia con il Nobel della fisica la ricerca spaziale. Ieri l’ha fatto dando metà del premio al cosmologo canadese James Peebles, e l’altra metà ai due astronomi svizzeri Michel Mayor and Didier Queloz. Ancora una volta tre uomini, e ancora una volta dal nord del mondo. Stavolta, poi, l’assenza di una donna in concreto, morta solo tre anni fa, è ancora più stridente: Vera Rubin. Con Peebles, infatti, l’accademia svedese ha premiato negli ultimi anni tutti quei fisici che sono stati capaci di costruire l’impalcatura teorica e osservativa che spiega l’universo come lo vediamo oggi: dalla traccia lasciata dal Big Bang 14 miliardi di anni fa, e cioè radiazione cosmica di fondo (premiata nel 1978 e poi nel 2006), alla scoperta dei neutrini di origine solare (2002), fino all’espansione dell’universo e alla scoperta della cosiddetta «energia oscura» (2011) e alle onde gravitazionali (2017).
CON PEEBLES, il Nobel premia un teorico puro, cosa che non è abituale, dato che l’Accademia di solito preferisce scoperte o verifiche sperimentali; ma la teoria che descrive oggi la storia e la struttura dell’universo è così solida, pur con tutti gli aspetti ancora da chiarire, che il risultato può considerarsi abbastanza consolidato agli occhi del comitato che sceglie chi premiare con l’onorificenza più glamurosa della scienza. Ma è proprio per questo che l’assenza di donne, e di Vera Rubin in particolare, cioè della persona che più dati e osservazioni ha apportato per consolidare l’evidenza scientifica della presenza della materia oscura (cinque volte più abbondante della cosiddetta materia ordinaria, quella che conosciamo e di cui siamo fatti noi, i pianeti e le stelle che osserviamo) è ancora più stridente. Certo oggi non potrebbe essere più premiata – il Nobel si dà a non più di tre persone vive – ma di occasioni per farlo in passato l’accademia ne ha avute. Così come di altre astronome famose, come la stessa scopritrice delle stelle pulsar, Jocelyn Bell, che rimase fuori dal premio assegnato ai suoi due capi uomini nel 1974.
L’ALTRA METÀ del premio se la dividono invece i due astronomi che sono entrati nella storia di questa scienza nell’ottobre del 1995, quando pubblicarono – tra lo scetticismo e la sorpresa dei loro colleghi – il primo articolo che dimostrava la presenza di un pianeta che ruotava intorno a una stella diversa dal sole. Oggi di pianeti extrasolari, come vengono chiamati, se ne sono identificati più di 4mila, ma in quel momento si trattò di un vero e proprio cambio di paradigma per l’astronomia, paragonabile solo a quando la Terra e più avanti il sistema solare cessarono di essere al centro dell’universo. Mayor e il suo studente di dottorato Queloz con la loro paziente osservazione delle righe dello spettro di emissione di una stellina chiamata 51 Pegasi, a 50 anni luce dalla terra, si accorsero che un cosiddetto «giove caldo» (un pianeta, cioè, gigante e gassoso, paragonabile al pianeta Giove nel sistema solare) ruotava intorno alla sua stella, con un periodo straordinariamente corto, di circa 4 giorni. Nel caso di questo primo esopianeta, tra l’altro, il gigante era straordinariamente grande e molto vicino alla sua stella. Era cioè un caso particolarmente speciale, che è poi anche la ragione per cui venne scoperto con il metodo utilizzato dai due nuovi premi Nobel.
TRA L’ALTRO, l’annuncio di questa scoperta mozzafiato venne fatta proprio in Italia, in una conferenza a Firenze il 6 ottobre 1995. Gli astronomi sospettavano da tempo che la formazione di un sistema planetario attorno a una stella non dovesse essere un evento tanto raro nella nostra galassia, formata da miliardi di stelle. Ma i due astronomi svizzeri squarciarono l’ultimo velo dell’illusione che la nostra terra, e pertanto noi come specie, fosse unica e speciale.
Non abbiamo (ancora) nessuna conferma che la vita possa esistere in qualche altro angolo di universo, ma ormai nessuno dubita che, date le dimensioni dell’universo, e dato che non c’è motivo per cui gli altri miliardi di galassie dovrebbero essere diverse dalla nostra, per lo meno le condizioni che hanno portato all’insorgere della vita su questo pianeta non debbano ripetersi altrove.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento