Il 13 luglio scorso il manifesto ha titolato l’articolo di Francesca Albanese “Parlare di Palestina oggi è impossibile, anche in Parlamento”. In Parlamento invece se ne parla, tant’è che all’audizione dell’avvocatessa Albanese – Rapporteur del Consiglio Onu per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi – seguiranno audizioni degli Ambasciatori di Palestina e Israele e di organizzazioni palestinesi e israeliane della società civile. E al termine la Commissione esaminerà Risoluzioni presentate dai diversi gruppi sul conflitto israelo-palestinese.

Nella sua audizione l’avvocatessa Albanese ha svolto una relazione ampia e dettagliata, a cui è seguito un dibattito nel quale anch’io ho manifestato le mie considerazioni in un confronto in cui è legittimo possano manifestarsi opinioni diverse. Se il contraddittorio che abbiamo avuto ha suscitato nell’avvocatessa Albanese sentimenti di disagio me ne rammarico perché ho rispetto e piena considerazione del suo ruolo e della sua dedizione.

Da questa diversità di opinioni, tuttavia, si è fatta discendere una rappresentazione delle mie posizioni che desidero smentire. Mi occupo da più di 40 anni di Medio Oriente, coltivando negli anni amichevoli e positive relazioni con tutti i principali protagonisti – da Arafat e Abu Mazen a Shimon Peres a Yossi Beilin – perseguendo sempre un obiettivo: una soluzione di pace e convivenza con uno Stato Palestinese indipendente accanto a uno Stato di Israele sicuro e riconosciuto dai suoi vicini, come concordato a Oslo e Washington tra Rabin e Arafat.

Per questo non ho mai mancato di denunciare l’illegittimità degli atti compiuti dalle autorità israeliane, quali gli insediamenti di coloni in Cisgiordania, il progetto di annessione della Valle del Giordano, la violazione dei diritti dei cittadini palestinesi di Gerusalemme est, la negazione della duplice identità di Gerusalemme, le misure di restrizione imposte alla popolazione palestinese.

Ma proprio perché mi batto per una pace giusta, non condivido una rappresentazione demonizzante di Israele. Un conto è criticare e contrastare chi in Israele impedisce ogni soluzione di pace. Altra cosa è combattere Israele in quanto tale. Herzog, Lapid, Gantz, Peretz non sono associabili a Nethanyahu, tant’è che stanno su fronti politici opposti. Dell’attuale maggioranza di governo israeliano fa parte anche la sinistra favorevole da sempre alla soluzione 2 popoli/2 Stati. E se nella attuale coalizione di governo c’è un rappresentante di un partito arabo, risulta difficile accettare la definizione di Israele come Stato razzista.

Israele è una società complessa con un variegato melting pot di identità di origine. Un Paese democratico – nella regione non se ne rinvengono molti – che vive la dialettica fisiologica della democrazia, con una destra e una sinistra, con integralismi religiosi e robusti settori laici, con settori favorevoli alla nascita di uno Stato palestinese e altri diffidenti o contrari. Una società che annovera tra i suoi intellettuali più prestigiosi Amos Oz, Abraham Yeshoua, David Grossman che si sono costantemente spesi per la pace e la convivenza tra ebrei e palestinesi.

Peraltro una nazione che a lungo è stata negata dai suoi Paesi vicini e che soltanto con la Conferenza di Madrid prima e gli Accordi di Oslo poi ha ottenuto riconoscimento dai suoi avversari. Non credo davvero che sia una lettura corretta e utile caricare ogni responsabilità su Israele – senza alcuna distinzione – come se in campo palestinese non ci fosse chi – vogliamo parlare di Hamas o del FPLP ? – manifesta un rifiuto ideologico del diritto di Israele a esistere.

Quando io dico che le istituzioni internazionali devono avere un profilo di terzietà, non propongo né neutralità, né agnosticismo politico. Al contrario sollecito ad una “terzieta‘ attiva” che – utilizzando gli strumenti sia del diritto che della politica – promuova e favorisca dialogo, reciproco riconoscimento, condivisione, rispetto degli accordi, perché mi pare l’unica strada – che so impervia e difficile – per uscire da un impasse che con sofferenze e tragedie si trascina da decenni. E la pace ci potrà essere solo se fondata sul reciproco riconoscimento di due diritti entrambi legittimi: perché è un diritto legittimo l’aspirazione palestinese ad avere una patria indipendente ed è un diritto legittimo la richiesta di Israele di vivere sicuro e riconosciuto dai vicini. Privilegiare uno dei due diritti e negare l’altro non consente di arrivare alla pace. Simul stabunt et simul cadent. E per quella soluzione continuerò, insieme a tanti, a battermi.