«Suburbia», luoghi americani del sogno e dell’incubo
Mostra Fino al prossimo 8 settembre al CccB (Centro di Cultura Contemporanea) di Barcellona si ripercorre l'origine e la massiccia espansione dei quartieri residenziali negli Stati Uniti
Mostra Fino al prossimo 8 settembre al CccB (Centro di Cultura Contemporanea) di Barcellona si ripercorre l'origine e la massiccia espansione dei quartieri residenziali negli Stati Uniti
È un anno questo in cui, più del solito, gli occhi del Vecchio mondo sono puntati sugli States, su presidenziali e loro candidati con corredo di colpi di scena, attentati e ritirate strategiche, su quanto il nuovo o la nuova leader potranno fare e non fare, su come il loro operato si riverbererà nel provato scenario geopolitico globale, Medioriente in primis.
Mentre porzioni di mondo vanno a male, si sbrindellano comunità insieme alle case e si polverizza il futuro di una generazione in nome della definizione del confine caro alla retorica trumpiana, una mostra a Barcellona riaccende i riflettori sull’organizzazione urbanistica e architettonica delle periferie americane, la scacchiera di case, garage e steccati che ripetendosi come in un frattale creano la suburbia, modello abitativo e forma del sogno americano in senso lato.
La mostra allestita fino al prossimo 8 settembre al CCCB (Centro di Cultura Contemporanea) di Barcellona ripercorre l’origine e la massiccia espansione dei quartieri residenziali negli Stati Uniti, la costruzione di un ideale sociale e politico andata di pari passo a quella delle case unifamiliari alla periferia delle città.
Il curatore è un giornalista catalano che si occupa di cultura, Philip Engel, con la consulenza dell’urbanista Francesc Munoz, e l’indagine interessa molti aspetti della way of life americana a partire dalle casette a schiera: i sobborghi nella rappresentazione artistica, studiati come scena del crimine, venduti – dentro un kit di beni di consumo assortiti – nelle pubblicità, presentati come sfondo alla costruzione di un prototipo di donna che di quei focolari seriali è angelo e regina. Luogo comune, davvero di tutti perché parte integrante di un immaginario veicolato dalla cultura popolare, a un tempo familiare e straniante come i posti visitati in sogno; la mostra ne fa quasi una radiografia, in un percorso espositivo multiforme fatto di copertine del Time e del Saturday Evening Post, testi critici, planimetrie, quadri, plastici, annunci immobiliari, molte bellissime foto: ad esempio quelle di Gregory Crewdson della serie «Dream House» con atmosfere mutuate dalle tele di Edward Hopper e special guest come Julian Moore, Tilda Swinton, Gwyneth Paltrow, Philip Seymour.
Alle foto è affidato di ritrarre le ombre della realtà delle periferie, che siano la solitudine o gli arsenali d’armi domestiche mostrate come collezioni di peluche dalle famiglie dei sobborghi e oggetto degli scatti di Gabriele Galimberti nel progetto «Ameriguns» vincitore del World Press Photo 2021.
Come in un set Lego, oltre a mattoncini e infissi, ogni casa ha la base di un fazzoletto di prato e tutti gli accessori per la messa in scena dove i più fotogenici sono i tosa erba e gli elettrodomestici.
L’esposizione ha cinque sezioni e un milione di fuoripista. Si comincia con «La pianificazione del sogno» che prende le mosse dalla Rivoluzione industriale e lo sviluppo delle reti infrastrutturali, ferroviarie e soprattutto tranviarie, che ha consentito l’espansione delle città verso le periferie; quindi tocca al boom del sobborgo che diviene sogno del soldato di ritorno dal fronte e oggetto di propaganda per il ripascimento suburbano che reclama mogli devote, almeno tre bambini e magari un rettangolo di piscina azzurra da affiancare a quello verde del prato.
Una dimensione che esordisce all’insegna della segregazione razziale: quella che Norman Rockwell rappresenta nella famosa illustrazione «New Kids in Neighborhood» e Clint Eastwood attualizza in «Gran Torino».
Nello step successivo c’è il disvelamento dell’incubo dentro al sogno preteso, le case sono mostrate avvolte in tenebre reali e simboliche (così nelle foto di Todd Hido e Bill Owens) nella paura della violazione della proprietà privata che arma anche i bambini, nell’advertising degli anni della guerra fredda che promuove rifugi anti atomici, botole degli antenati di ogni panic room sinistre come tombini di «It», bocche spalancate dove venire fagocitati dalle proprie fobie. La porta verso il riparo dagli uragani, quella che Dorothy Gale, nel Mago di Oz, non riesce ad aprire, fatto che determinerà la sua avventura nel mondo a colori, e la sua salvezza.
Infine viene illustrato, oltre alla recezione in Catalogna del modello abitativo americano, il post suburbia, luogo dove ancora vivono otto americani su dieci, più aperto rispetto alle origini ma che esaspera ancora disuguaglianze e mostra indole energivora e comunque insostenibile (un sobborgo del New Jersey ha più emissioni inquinanti dell’intero Lower Manhattan).
Alle suburban housewifes americane (pronipoti delle lettrici più accanite del The American Woman’s Home, manuale di economia domestica del 1869 e pietra angolare per la costruzione di una casa e di una famiglia americana, scritto da Catharine Beecher e sua sorella Harriet Beecher Stowe) si è rivolto Donald Trump. Intende proteggerle, ha dichiarato tonante, dagli immigrati che striscerebbero minacciosi verso la loro proprietà, un po’ come i nativi americani nei libri della saga La Casa della Prateria, dove Laura Ingalls Wilder, nata nel 1864, racconta la sua infanzia in Kansas e Dakota.
La musica della suburbia meriterebbe una mostra a parte: gli Arcade Fire gli hanno dedicato un intero album, Suburbs, che a sua volta ha ispirato a Spike Jonze un cortometraggio sul tema, Scenes from the Suburbs; però come per molti altri aspetti della società nordamericana, anche il paesaggio culturale dei sobborghi è presente al resto del mondo soprattutto grazie a narrativa e ancor più a cinema (ragazzini corrono in bici e svolgono trame memorabili tra le case di periferia su ET, Goonies, Back to the future -Ritorno al futuro, Stranger Things per citare i classicissimi), sit-com e serie tv.
La prima è stata Father knows best (tradotto come Papà ha ragione), in onda dal 1954 al 1960, con la rappresentazione oleografica della famiglia americana della classe media (nel Midwest in questo caso) tanto popolare da portare il Dipartimento del Tesoro americano a commissionare alla produzione nel 1959 uno speciale di mezz’ora della serie (24 Hours in Tyrant land) in cui gli Anderson si trovano a vivere per un giorno sotto la dittatura, il tutto, va da sé, a enfatizzare il modello della democrazia USA in un momento cruciale della sua storia. Il comedy-drama ha fatto da matrice a tutte quelle che sono seguiti (ad esempio Eight is enough, La Famiglia Bradford in Italia) variazioni e parodie comprese: la più esemplare, nota e amata è la creatura di Matt Groening, I Simpson, che si apre in sigla sulla veduta aerea della suburbia di Springfield, con arrivo precipitoso di Homer, papà che ha più sentimenti e risentimenti che ragioni, nel posto auto accanto casa e rimbalzo automatico su divano. Mentre lui dorme con la Duff in mano noi confidiamo nel voto di Lisa e della suburban housewife Marge.
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