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Subliminale utopia di Nick Laird per un futuro senza costrutti identitari

Subliminale utopia di Nick Laird  per un futuro senza costrutti identitari

Narrativa irlandese "Il ritorno degli dei" da minimum fax

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 17 marzo 2019

In una delle tante interviste rilasciate da Nick Laird si legge: «Per un protestante dell’Irlanda del Nord funziona così: in Inghilterra sei un irlandese, anche se non lo sei davvero. In Irlanda sei un britannico, anche se non è proprio così. In America, dove mi capita di vivere al momento, sei irlandese, ma quando dici che vieni dal Nord ti lanciano sempre una strana occhiata di (in)comprensione». Di questa «identità duale», già indagata da uno dei massimi poeti d’Irlanda, Thomas Kinsella, Laird è forse uno dei rappresentanti più in vista nella narrativa irlandese contemporanea, proprio in virtù della sua sobria distanza dalla categorizzazione delle differenze, sociali e politiche.

Le semplificazioni che vorrebbero le due comunità principali del Nord Irlanda divise da una discriminante religiosa non sono solo inaccettabili, ma soprattutto fuorvianti: parlare di cattolici e protestanti in Irlanda del Nord è solo un modo per negare qualcosa di molto più complesso. Molti tra i membri dell’Ira, organizzazione per tanti anni appoggiata dalla comunità che siamo soliti chiamare cattolica, erano tutt’altro che devoti praticanti, e ripetute sono state le scomuniche da parte della chiesa.

Nel suo ultimo libro, Il ritorno degli dei (minimum fax nella cadenzata e musicale traduzione di Federica Aceto, pp. 410, euro 18,00) Laird affronta questa ancestrale dualità religiosa ricorrendo a una dislocazione spaziale simbolica, e sorprendentemente rivelatrice. La storia si struttura su due piani paralleli, con due ambientazioni solo all’apparenza distanti, ma in realtà del tutto speculari: la prima è l’Ulster segnato dai dissidi e dai tumulti di un passato non troppo lontano, alla luce di certi sviluppi politici recenti, sempre più a rischio di riaffacciarsi sul presente; l’altra è un’isola di invenzione chiamata New Ulster nella Papua Nuova Guinea (di cui, a rigor di mappamondo, fanno parte invece le due isole dette New England e New Ireland).
Delle due sorelle protagoniste del romanz, Liz è un’antropologa che vive in America e deve andare dall’altra parte del mondo per girare un documentario della Bbc su un nuovo culto locale che sta creando non pochi problemi alla missione ufficiale; l’altra, Alison, rimasta in Ulster, dopo aver abbandonato un marito che la picchiava, sta per sposarsi con un uomo che vanta un più che torbido passato.

Tra i due piani paralleli si incastrano interludi narrativi che sembrano cornici quasi biografiche, riguardanti le vittime di uno dei tanti massacri dei paramilitari del nord; proprio con uno di questi eccidi – descritto da Laird con grande efficacia narrativa – ha inizio la storia.
I problemi identitari di persone che abitano luoghi così distanti sono collegati dal filo rosso della mitizzazione del passato: in Ulster la popolazione fa riferimento a due tradizioni che fino a qualche anno fa si parlavno raramente e semmmai a colpi di fucili, mentre in New Ulster, una nuova mitologia delirante e – si dice nel romanzo – schizoide, sta sostituendosi non solo ai valori di una religione comunque imposta, ma anche alle regole antiche della convivenza civile.

Da studiosa che si è formata sull’analisi del mito e del rito – non pochi gli echi da Lévi-Strauss, Bourdieu, Foucault – Liz è alla ricerca non di una storia da raccontare, ma di un nuovo modo di leggere simbolicamente quanto accade, che le consenta di ricomporre il mosaico sfuggente dei rapporti con la sua famiglia e con i suoi affetti, sempre meno intellegibili tramite le logiche sociali vigenti.

Qualcosa di simile capita anche alla sorella, che a lungo si forza di non leggere i più chiari sintomi di un disagio represso, e foriero di tempeste: «entrò in cucina, dove lo trovò con le maniche arrotolate che lavava i pennelli… vide sul braccio sinistro di Stephen un tatuaggio del leone britannico rampante… e sotto, in caratteri gotici, la scritta No Surrender. Sull’altro braccio c’era la mano insanguinata rossa e brillante e sotto un pugnale con Made in Ulster scritto sulla lama. Ma sembrava un tipo così mite, così calvo, così normale».
Forse l’unico elemento al tempo stesso meccanico e po’ artificioso del romanzo è il tentativo di far passare per misterioso quel che, almento in certi ambienti, non lo è; ma di contro, Nick Laird esibisce una notevole capacità di ritrarre la società e i suoi tipi umani con una profondità poco conosciuta dalla narrativa irlandese contemporanea. L’andamento altalenante della storia, che senza soluzione di continuità fa muovere il lettore tra scenari completamente diversi ma al contempo perturbantemente affini contribuisce alla peculiarità del romanzo, che mostra sottotraccia venature quasi conradiane.

Il personaggio della sacerdotessa del nuovo culto, il cui nome, Belef, rimanda a belief (che sta per credo), questa novella Kurtz che dialoga con i morti nella foresta, e messianicamente profetizzare il ritorno in vita dei trapassati, è tanto magnetica da attrarre Liz a sé e ai suoi segreti più di quanto non riesca a farlo la missione razionalista. Di fronte alla complessità di riti impalpabili, i tumulti in Ulster appaiono quasi scaramucce, e l’infinito dibattito identitario di quella periferia del Nord Europa mostra a tratti la sua fallacia: «Il simbolo della nazione è una mano rossa, e viene dal periodo in cui l’Ulster non aveva un vero e proprio governo. E così un bel giorno si decise di fare una gara con le barche: l’uomo che per primo avesse toccato con la mano le coste dell’Irlanda sarebbe stato il signore del paese. Parteciparono tantissime barche. Un uomo chiamato O’Neill, vedendo che stava per perdere, prese la spada, si tagliò una mano e la scagliò verso la costa, toccandola così per primo».

Nick Laird, che a Cambridge alla fine degli anni novanta deve essere venuto in contatto sia con gli studi postcoloniali sia con quelli sulle identità nazionali, sa bene come queste siano – spiegava Anderson – «costrutti immaginari». Dunque, le scene che costruisce per i suoi lettori hanno per Laird anche qualcosa di utopico: ci parlano un passato da rivangare per comprenderne gli errori, e di un futuro che, nel mezzo dei suoi conflitti, può essere additato come orizzonte di possibilità intentate, e di probabilità non ancora inverate.

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