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Stubbs e l’asina della Regina

Stubbs e l’asina della ReginaGeorge Stubbs, "Zebra", part., 1763, New Haven (Connecticut), Yale Center for British Art

Animal House, Settecento inglese: la zebra di George Stubbs Fra gli equini da lui ritratti (capolavoro, lo stallone arabo Whistlejacket) c’era anche la zebra donata alla regina Carlotta: giunta a Londra nel 1762 e dipinta con zelo di miniaturista, era offerta alla pubblica curiosità (come già il rinoceronte Clara) in un serraglio a St James’s Park

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 11 agosto 2024
George Stubbs, “Selfportrait”, 1781, Londra, National Portrait Gallery

Per comprendere il pittore George Stubbs e la sua passione per gli animali ritratti nei suoi quadri è necessario entrare nella Galleria della National Gallery di Londra dedicata alla pittura inglese del Settecento (room 34). Esattamente al centro di una delle pareti lunghe, accanto a conversation piece e paesaggi, generi prediletti dal pubblico anglosassone nel secolo della nascita in Inghilterra di una scuola artistica nazionale, svetta un dipinto di dimensioni colossali – ben tre metri di altezza per due e mezzo di larghezza –, assai originale se non unico in un museo che celebra il primato delle arti europee tramite Sacre Conversazioni e quadri mitologici.
Il dipinto in questione raffigura un bellissimo esemplare di cavallo impennato dal manto castano a grandezza naturale su uno sfondo neutro. Nessun dettaglio, dunque, a distogliere lo sguardo dallo stallone arabo di cui conosciamo il nome, Whistlejacket, e il proprietario committente del quadro, il secondo marchese di Rockingham, uno dei più ricchi uomini d’Inghilterra, appassionato di allevamenti di cavalli e di corse. Un vero e proprio ritratto, dunque, dell’animale scelto per arredare la country house dell’aristocratico nello Yorkshire, nota per una collezione di statue antiche che Charles Watson-Wentworth aveva acquistato a Roma nel corso del suo Grand Tour italiano tra il 1756 e il 1758.
Non stupisca la strana mescolanza nella nobile dimora di antichità classiche e di ritratti di cavalli, ben dodici secondo le fonti dell’epoca, che Stubbs aveva eseguito su richiesta del marchese. Se infatti la collezione di sculture rispondeva a un costume sociale consolidato che imponeva alla classe dirigente del Paese di rispecchiarsi nell’autorevolezza dell’Antico, la ricerca di nuovi generi pittorici e di nuovi soggetti andava incontro all’idea di uno stile nazionale nelle arti in grado di rivendicare un’autonomia rispetto al resto d’Europa.
Stubbs si era inserito con la sua pittura in questo filone, sebbene a sua volta non avesse rinunciato a un soggiorno romano. Era arrivato nell’Urbe nel febbraio del 1754 per rimanervi tuttavia pochi mesi, sfuggendo stranamente al fascino di Roma, vera e propria meta di pellegrinaggio degli artisti e degli intellettuali di tutto il mondo. Mancano del pittore sia appunti di viaggio, sia materiali grafici, che costituivano un prezioso repertorio da riportare in patria. Il pittore inglese Richard Wilson, nella capitale pontificia per ben sei anni tra il 1751 e il 1757, dove di certo frequentò Stubbs, avrebbe aperto al suo rientro a Londra uno studio a Covent Garden, in cui si formò più di una generazione di paesaggisti grazie alla miriade di disegni realizzati nel soggiorno romano, messi a disposizione dei suoi allievi.
Certo, a ben guardare, nell’opera di Stubbs qualche memoria romana dovette emergere nel corso del tempo. C’è da chiedersi ad esempio se nella posa di Whistlejacket non si debba riconoscere la suggestione del Gruppo equestre di Costantino di Gian Lorenzo Bernini alla base della Scala Regia in Vaticano. L’ardimentoso cavallo dello scultore, con le zampe anteriori sollevate in aria e la testa dalla voluminosa criniera rivolta verso lo spettatore, non sembra essere distante dall’iconografia del dipinto londinese di Stubbs. E sebbene quest’ultimo avesse confessato in una missiva che il viaggio nella capitale pontificia ad altro non era servito se non a confermare la sua idea di come la natura fosse superiore a qualsiasi antichità greco-romana, fu la scoperta in Campidoglio del gruppo scultoreo di età ellenistica di un Leone che azzanna un cavallo a suggerirgli la realizzazione di una serie di quadri con lo stesso soggetto; dipinti in cui il pittore immerge in un paesaggio lussureggiante e selvaggio i due animali, studiati nel minimo dettaglio sia per quanto riguarda l’anatomia, sia nelle singole espressioni. Al pari di un quadro di storia, le tele si prestano a essere lette anche in forma allegorica come sinonimo della barbarie – rappresentata dal leone – che minaccia la civiltà. Certo è che la prima versione del tema, esposta alla Society of Artists del 1763, ricevette l’attenzione del celebre letterato Horace Walpole, e pochi anni dopo, in un ritratto tradotto in incisione, Stubbs viene identificato come Animalium Pictor.
Per guadagnare tale appellativo l’artista si era sottoposto a un training assai particolare, testimone ancora una volta del suo originale percorso. Mentre infatti in accademia i giovani pittori si prestavano allo studio dell’anatomia del corpo umano e infine del modello maschile messo in posa in assoluta nudità, Stubbs trascorreva diciotto mesi nel villaggio di Horkstow, nel Lincolnshire, a dissezionare carcasse di cavalli. Ne sarebbe scaturita nel 1766 una pubblicazione illustrata dal titolo The Anatomy of the Horse, con un sottotitolo che dava conto dell’ambizione scientifica del trattato includendo Description of the Bones, Cartilages, Muscles, Fascias, Ligaments, Nerves, Arteries, Veins and Glands. Un’esperienza che sembra rievocare, con le dovute differenze, le raccomandazioni di Leonardo quando nel Trattato della pittura consigliava la conoscenza della miologia del corpo umano per diventare un bravo pittore di storia, corretto nel «moto» e nel «fiato» delle singole figure.
Ancora prima della pubblicazione, con il rientro a Londra di Stubbs nel 1758 in compagnia dei disegni e degli appunti del futuro trattato, la fama dell’artista decollava, subito introdotto nel circolo degli aristocratici della città, che gli commissionano ritratti dei loro purosangue, dal mantello lucido e dalle code accuratamente tagliate, importati dall’Africa, dalla Turchia, dalla Spagna. Animali presentati nei dipinti come veri e propri trofei in pose rigide, con accanto stallieri e fantini, o tranquillamente immersi in splendide tenute dove il soggetto sembrerebbe volutamente rinviare all’idea di un nuova Arcadia, di un Eden ritrovato come peraltro rievocato, negli stessi anni, dall’allestimento di parchi e giardini in grado di scalzare la fama secolare del giardino all’italiana, imponendosi come modello nelle dimore di tutta Europa. A Roma sarebbe stato chiamato il pittore paesaggista Jacob More per ridisegnare il parco di Villa Borghese, primo giardino all’inglese della città.
Di fronte alla luminosa carriera di Stubbs come pittore animalista non stupisce ritrovare la sua competenza meticolosa nel ritrarre «l’asina della regina», la zebra donata alla regina Carlotta, moglie di Giorgio III. L’animale era giunto in Inghilterra dall’Africa nel 1762 per essere rinchiuso in un serraglio a St James’s Park dove, offerto alla curiosità dei londinesi, divenne ben presto una celebrità, come peraltro era successo una decina di anni prima a un rinoceronte, una femmina chiamata Clara, costretta a un tour europeo da parte di un capitano della Compagnia delle Indie Olandesi che lo aveva importato dal Bengala. È una coppia di quadri del pittore veneziano Pietro Longhi (Venezia, Ca’ Rezzonico; Londra, National Gallery) a documentare la povera Clara nella tappa della città lagunare, privata del suo corno tenuto in bella mostra nella tela dal proprietario dell’animale e circondata da figure in maschera. Non è questo il solo documento veneziano a parlarci della pratica di esibire animali esotici in occasione del Carnevale: disegni di Giandomenico Tiepolo, figlio del noto Giambattista, raffigurano un elefante (New York, The Morgan Library & Museum) e un gruppo di ghepardi (New York, MET), dove la partecipazione emotiva del pittore di fronte alle bestie in cattività dà conto dell’occhio disincantato e della sensibilità del grande pittore veneziano che un padre fin troppo ingombrante ha destinato ingiustamente a una fama modesta.
Nel caso del dipinto di Stubbs non emerge in verità alcun trasporto affettivo quanto piuttosto la solita volontà di registrare in un’immagine quasi miniaturistica la bellezza della specie. Un quadro che entrò nella collezione personale del pittore, come lascia intendere il fatto che fosse ancora nello studio alla sua morte avvenuta nel 1806. Da quell’immagine, tuttavia, scaturì un’altra occasione professionale per Stubbs, impiegato dai fratelli Hunter, appassionati di anatomia comparata animale, per ritrarre razze sconosciute che con sempre maggiore frequenza venivano importate in Inghilterra: gazzelle e scimmie dall’Africa, yak dalla Mongolia, alci dalle Americhe. Va d’altro canto ricordato, in chiusura, come negli stessi anni il pittore William Hodges, di ritorno dal lungo viaggio di esplorazione di James Cook, che lo aveva assoldato prima della sua partenza, meravigliò e sedusse Londra con decine di vedute paradisiache di terre lontane, alcune delle quali scoperte per la prima volta.

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