Quanto una serie come Stranger Things regge dal punto di vista della congruenza narrativa ed estetica, e quanto invece il consenso anche della critica, di parte della critica, non sia il frutto della nostalgia – quindi di un comportamento acritico – di tutta una generazione? Se si esclude il filtro nostalgico, restando ad esempio sulla sceneggiatura, su note di regia, di montaggio ecc., bisogna ammettere che questo tipico prodotto postmoderno a tratti funziona anche meglio di certo cinema di genere degli anni 80, che è il suo referente: film spesso sconclusionati, difettosi, ma che portavano addosso i segni, le suggestioni del loro tempo.Al gusto infantile per il rifugio subentra la necessità dell’evasione

TRA I TANTI che si potrebbero citare, Breakfast Club (1985) di John Hughes – il cui fascino è pari a certe lacune di fondo – che del resto costituisce un modello importante per la quarta stagione di Stranger Things in cui i protagonisti sono diventati degli adolescenti sempre più invischiati nelle dinamiche scolastiche: siamo nel 1986. E non sorprenderebbe se nella seconda parte della quarta stagione – disponibile su Netflix dal primo luglio – spuntasse Don’t You (Forget About Me) dei Simple Minds che era l’antifona del film di Hughes e sicuramente uno dei brani più rappresentativi di quel decennio.
Poi però, fatta l’analisi obiettiva del tessuto cinematografico della serie, subentra un elemento essenziale, quello della nostalgia a completare il quadro. Si usa, con un po’ di imbarazzo, quasi con un senso di colpa per il godimento così immediato offerto dai fratelli Duffer (tra attrattiva della trama e commozione per lo scenario retrò), l’espressione «ben confezionata», il che bene o male dice di strutture di fondo (su cui costruire la confezione), di traiettorie dialettiche e spaziali riscontrabili sotto il repertorio audio-video di Stranger Things.

LA PRIMA stagione – uscita nel 2016 tra lo stupore e il compiacimento più infantile degli ultra-quarantenni, tra i quali chi scrive – era tutto un crepitare plasticoso di interni o quantomeno un cabotaggio dentro il microcosmo di Hawkins, la cittadina in cui s’apre il primo squarcio sul Sottosopra, una dimensione parallela in cui cova il male: mostri melmosi, tentacolari, ossessi. Un riferimento insistito era E.T., e di lì innumerevoli altre citazioni di tutto il cinema e l’immaginario degli anni Ottanta (tra Spielberg e Steven King), ma sempre con un’attenzione particolare per la dimensione domestica, al riparo dell’esterno, del buio.
La bambagia, la penombra di un tinello: un tavolo e dei bambini intenti a giocare a Dungeos & Dragons, cioè a dare sfogo alla propria fantasia, che è quello che fanno alla fine i fratelli Duffer con il loro giocattolo di plastica dipinta e poi smaltata perché non perda il colore: Stranger Things appunto.

ORA, IN QUESTA quarta stagione, a questo gusto infantile per il rifugio subentra la necessità dell’evasione: famiglie trasferitesi, ragazzi in attesa di migrare verso le università, adulti in trasferta rocambolesca tra l’Alaska e la Russia più orientale. Anche il Club dei giocatori di Dungeos & Dragons sembra perdere i pezzi, così come il suo scenario domestico, ora più sfatto, decadente di quanto non fosse il tinello tendato, tappezzato di tre anni prima. A ciò corrisponde una modifica dei modelli horror, che prima erano Poltergeist o La Cosa, e ora accelerano verso lo splatter, guardando a Nightmare, La Casa, Hellraiser.
Insomma un orrore più esplicito, invasivo, carnale, in sintonia con la crescita dei protagonisti, con la scoperta inquieta dei propri corpi in modificazione. Dentro questo orrore, uno squarcio luminoso è aperto dall’immaginazione, dal segno espressivo, la musica soprattutto, come era già accaduto per Never Ending Story di Limahl alla fine della terza stagione. Qui sono due brani, due capolavori dell’85: You Spin Me Round (Like a Record) dei Dead or Alive e soprattutto Running Up That Hill di Kate Bush, tornato in classifica dopo tanti anni, sia nel Regno Unito che negli Usa proprio grazie al successo di Stranger Things, e per la potenza inalienabile del ricordo. Viene in mente Ivo nella Voce della luna quando dice: «come mi piace ricordare, più che vivere, del resto che differenza fa?».