Una sera di febbraio, nel 1893, un poeta entrò in un caffè a Unter den Linden, nel centro di Berlino. Nella sala al primo piano lo attendeva un signore vestito di tutto punto, in redingote e cappello a cilindro. Era il redattore di una rivista letteraria ancora poco conosciuta, i «Blätter für die Kunst». Lo accolse dicendo che presto li avrebbe raggiunti anche Stefan George, il capo di quell’ambiziosa rivista che intendeva guidare la «splendente rinascita» della cultura tedesca. Doveva parlargli di «alcuni punti e alcune virgole» che andavano tolti dalla poesia, qualche tempo prima arrivata alla redazione.

Il poeta che era arrivato al caffè ancora ignaro – si chiamava Max Dauthendey – fu stupito dai modi formali dell’incontro e dalla richiesta di George. L’argomento, «la posizione dei segni di punteggiatura», gli pareva in fondo «cosa di poco conto». Il colloquio non andò dunque per le lunghe: che facessero pure come volevano, lui non dava «troppa importanza all’interpunzione, purché non cambiasse il senso del testo».

Una opposizione estetica
Quello stesso poeta ricorderà nella sua autobiografia di essersi sentito un po’ a disagio nell’incontrare colleghi tanto eleganti e sussiegosi indossando un modesto abito da passeggio. Forse però a renderlo non del tutto all’altezza della situazione non era tanto il vestiario, ma l’indifferenza per la questione posta da Stefan George. Assai diversa, pochi mesi dopo, la reazione di Hugo von Hofmannsthal, anche lui fra i primi collaboratori della rivista, in una lettera inviata al redattore: che «rispettassero la punteggiatura», poiché «ogni cambiamento in proposito era indebito e bizzarro, come se si cambiasse la strumentazione prevista da un compositore».

Non erano fisime soltanto di George o di Hofmannsthal, queste attenzioni per i punti o le virgole, ma faccende cruciali per il modernismo europeo. Se la punteggiatura è cosa di estrema importanza per molti artisti della parola, in particolare lo fu per quelli che si trovarono a scrivere a cavallo tra i due secoli. Esemplare la voce di Oscar Wilde, negli anni Ottanta dell’Ottocento. Burlandosi di chi voleva misurare l’impegno secondo un criterio quantitativo, Wilde affermava di avere alle spalle una giornata di intenso lavoro, e quindi spiegava: «Ho trascorso l’intera mattinata decidendo di togliere una virgola da una mia poesia». E nel pomeriggio? «Nel pomeriggio ho deciso di rimetterla».

Una cinquantina d’anni dopo, all’inizio degli anni Trenta, la voce non meno esemplare di Karl Kraus, viene quasi a chiudere la stagione più feconda della cultura europea: a chi gli chiedeva perché si ostinasse a prestare tanta attenzione alle virgole, mentre ovunque avanzava la barbarie, Kraus rispondeva di essere consapevole della vacuità dei suoi sforzi, però forse «se si fosse prestata più attenzione a dove cadevano le virgole, ora non sarebbero cadute le bombe».

Che fosse un modo per sconcertare i borghesi e scuotere il mito della produttività o che fosse un estremo tentativo di difendere il linguaggio dalla sciatteria e dalla violenza, l’attenzione per la punteggiatura appare come un moto di protesta contro l’esistente, un gesto di resistenza contro le forze dominanti. Era così anche per George: nella sua originalissima ars punctandi va cercata, infatti, una forma di «opposizione estetica», ancor più e ancor prima di quella supremazia artistica che gli avrebbe poi riconosciuto Gottfried Benn, pronto a celebrare con toni fin troppo enfatici la scena di quel caffè berlinese come una solenne cerimonia in cui non vi era «in alcun modo affettazione né, in alcun modo, stravaganza, era la più profonda serietà dell’Europa sul finire del secolo, era qualcosa di virile, anzi monastico, era destino. Era la legge di quel vangelo dell’arte quale ultima metafisica europea».

Anche attraverso i punti, George «delimitava e costruiva, esercitava la sua sovranità», benché nell’uso della punteggiatura fosse in fondo meno rigido rispetto a molti altri autori. E proprio per questo George si discostò in modo tanto più rivoluzionario dalle regole del tempo. Eliminò quasi completamente la virgola, usò con parsimonia anche altri segni di uso corrente, recuperandone invece alcuni ormai desueti, in primo luogo quel punto mediano che, con altra funzione, si trovava nella classicità o ancora nel medioevo. È un punto che si libra a mezz’altezza, separando segmenti di singoli versi o di frasi, e suggerendo così alla voce di restare analogamente sospesa, indugiando senza abbassarsi prima di procedere oltre. All’inizio usato saltuariamente, quel segno divenne col passare degli anni un tratto distintivo negli scritti di George e nel circolo che attorno a luì si andò organizzando. Per esempio nei versi dedicati a un parco ormai dato per morto, che sotto l’«azzurro insperato di pure nubi» serba un’autunnale splendore: «là prendi il giallo intenso · il tenue grigio / da betulle e da bossi · il vento è mite / le tarde rose non ancora appassite · / sceglile baciale e intreccia la corona · ». Nelle prose, dove si trattava a volte di teorizzare una poetica avversa a ogni dire immediato, per cui «una profonda impressione · un forte sentire» non garantiscono in alcun modo una buona poesia, ogni sentire deve piuttosto tradursi in una atmosfera sonora «che richiede certa calma · addirittura letizia».

Irriducibile a una norma George non esiterà a usare questo punto mediano anche nelle traduzioni da poeti stranieri («esta selva selvaggia e aspra e forte», all’inizio della Commedia dantesca, diviene per esempio «diesen wald · den wilden rauhen herben · »). E a volte, nella sua rivista, verrà posto nelle citazioni tratte da altri autori come Goethe o Orazio.

Fin da questi pochi casi, l’uso del punto mediano appare assai vario e assai vago, irriducibile a una norma o a una precisa funzione sintattica. Talvolta sembra simile a una virgola, talvolta sembra più simile a un trattino; in molti casi viene aggiunto solo in un secondo momento, quasi a scandire l’eco sempre più ampia di una poesia che, nella sua prima versione, era quasi del tutto priva di segni di punteggiatura. Le modifiche che si compiono tra una edizione e l’altra della stessa poesia potrebbero stupire in un autore tanto attento agli aspetti formali come fu George. Potrebbero quasi suggerire come l’interpunzione fosse per lui qualcosa di accessorio, variabile, arbitrario. Proprio qui va cercato un momento centrale della rivoluzione che il poeta provò a imporre alle rigidità della propria lingua.

I tedeschi, diceva Harry Graf Kessler, sono un popolo privo di ordine e misura, per questo dovettero inventare la disciplina militare e l’imperativo categorico, e per questo, si potrebbe aggiungere, andarono codificando nel corso dell’Ottocento regole di punteggiatura molto rigide, per cui i segni dovevano marcare in modo inequivoco i confini tra le frasi, senza più poter suggerire intonazioni o pause di lettura. Il punto mediano era insomma un tentativo di liberare la lingua tedesca da questi vincoli e tornare ad antiche consuetudini: esso offriva un’indicazione che non riguardava tanto il senso, ma il ritmo del testo. Ed era tanto più necessaria là dove, come voleva George, «a decidere il valore della poesia non è il senso (altrimenti sarebbe saggezza o sapienza) ma la forma», qualcosa che «non è assolutamente esteriore» e risiede nell’effetto profondo di suoni e misure ritmiche.

In questo George si colloca all’opposto di Karl Kraus. Condannando l’uso sciatto e impreciso della punteggiatura con cui certi maldestri scribacchini fatalmente storpiavano il significato delle frasi, Kraus si faceva custode della norma con un’acribia tale da suggerire a qualcuno il nomignolo di «Komma-Kraus», «Kraus delle virgole». George, al contrario, rinuncia quasi completamente alle virgole e per converso prova a praticare una lingua che sia comprensibile anche senza indicatori sintattici: i «Satzzeichen» (così si chiamano in tedesco i segni di punteggiatura, letteralmente «segni di frase») diventano allora «Lesezeichen», cioè in primo luogo «segni di lettura» che «ogni autore usa secondo il proprio stile». Il rifiuto della tradizionale punteggiatura e il recupero di insoliti segni di interpunzione finivano così per ridefinire il ruolo di autore e lettore. La scrittura doveva articolarsi secondo strutture che fosse possibile cogliere anche senza l’ausilio delle virgole, mentre la lettura, priva di immediate indicazioni sintattiche, era portata a procedere con rara cautela, volgendo ogni attenzione al testo, fino a intuire nelle pause dettate da certi punti sospesi a mezz’aria, una insperata affinità tra il linguaggio e la musica.