Singer, le mille astuzie di una vita randagia
Narrativa yiddish Datata 1970, una raccolta di racconti per anime senza pace, tra lo shtetl della Polonia, l’Upper West Side e le colonie ebraiche in Sudamerica: «Un amico di Kafka», da Adelphi
Narrativa yiddish Datata 1970, una raccolta di racconti per anime senza pace, tra lo shtetl della Polonia, l’Upper West Side e le colonie ebraiche in Sudamerica: «Un amico di Kafka», da Adelphi
Nel 1953, sulle colonne della «Partisan Review», un esordiente Saul Bellow pubblicava la traduzione inglese del racconto Gimpl Tam, che I. B. Singer aveva scritto in yiddish otto anni prima per la rivista «Tsukunft», catapultando l’autore dentro il mainstream letterario, in un momento di particolare fortuna per la narrativa ebraico-americana e, in generale, per tutta la controtendenza, non solo ebraica ma anche beat e afro, al realismo degli anni Trenta. Accanto a Gimpel lo Sciocco, negli anni appena prima o subito dopo, entrano trionfalmente, nell’immaginario e nel mercato statunitensi, Uomo invisibile di Ralph Ellison, Sal Paradise di Kerouac e Augie March dello stesso Bellow, tutti a loro modo eccentrici shlemiel, spaesati «uomini dell’aria» e, proprio per questo, eroi moderni.
L’avvio di una fortuna
Per Singer cinquantenne il racconto, tre anni dopo l’uscita della Famiglia Moskat in inglese, è la prima, vera pietra della sua fortuna oltreoceano. Di lì in avanti si infittiscono, testimoni di un interesse in aumento, le versioni dallo yiddish e si consolida il tandem composto dai diversi traduttori affiancati dallo stesso Singer che sorveglia il testo americano, maneggiandolo in larga misura e considerandolo un secondo originale.
Così, accanto ai romanzi, i racconti tradotti si incalzano, a ritmo sempre più serrato, pubblicati dapprima in yiddish, uno a uno su rivista, e poi racchiusi in eleganti raccolte inglesi con titoli ormai canonici e un posto assicurato sugli scaffali, dallo Spinoza di via del mercato a Breve venerdì, da I due bugiardi a Una corona di piume a Vecchio amore fino alla Morte di Matusalemme che precede di quattro anni quella di Singer, e alle memorie, autobiografiche ma con alto gradiente narrativo, di Alla corte di mio padre con il sequel postumo delle Nuove storie.
Del 1970 è la raccolta, quinta in ordine di tempo, Un amico di Kafka – con ventuno racconti resi in inglese a più mani, sotto l’occhio vigile dell’autore – e ora ripubblicata da Adelphi nell’accurata traduzione di Katia Bagnoli (pp. 271, € 22,00), a conferma di una presenza stabile sul mercato librario, dove il primo tassello è la storica edizione Longanesi che segue di soli quattro anni il volume americano.
Nelle centinaia di storie che scrive in America, Singer unisce gli impulsi dell’avanguardia anni Cinquanta al potenziale umoristico e farsesco, più vecchio di una generazione, dello shtetl di Sholem Aleichem, ritagliando personaggi che a volte ne sono discendenti, repliche di un mondo distrutto e tuttavia figli di una sensibilità più moderna e scettica, perseguitati da demoni più difficili da scacciare, impantanati nelle bassure della vita ma mai del tutto privi di candore, sempre sul crinale tra vecchio e nuovo mondo. Anche in Un amico di Kafka, le ambientazioni – oscillanti tra lo shtetl della Polonia, lo Upper West Side e le colonie ebraiche in Sudamerica – ospitano, a turno, rabbini e scrittori, santi ed eretici, angeli e anime senza pace.
A partire dal racconto eponimo che mette in scena, contro lo sfondo di una Varsavia autunnale e demi-monde, il ricordo del legame tra Kafka e un attore di teatro yiddish, senza un soldo e a fine carriera, dietro il quale è facile riconoscere il guitto girovago Jizchak Löwy che così tanto aveva suggestionato lo scrittore praghese schiudendogli, in lunghe conversazioni serali, il mondo ebraico dell’Europa orientale.
L’ingresso nella raccolta è dunque già segnato da un abile gioco di maschere d’autore: il narratore – forse Singer, forse no – racconta di un amico di Kafka che, a sua volta cantastorie patentato, racconta di Kafka. La distanza, quasi una mise en abyme ma senza troppe complicazioni narratologiche, e l’incertezza dell’essere fuori dalla storia o dentro, contribuiscono a sfumare i contorni pur tenendo bene a fuoco il problema radicale di uno scrittore – Kafka in questo caso, ma la diagnosi vale per molti stralunati Don Chisciotte, approdati dallo shtetl a Miami Beach – che «voleva essere ebreo ma non sapeva come».
Una chiave per il mondo
Se c’è un filo che attraversa queste storie, diverse per spessore, timbro e qualità, è forse proprio la ricerca, da parte dei personaggi, di una chiave per sé e per il mondo. Che sia un edonista blasé, un mercante di nuvole, un artista da giovane, un uomo pio nei panni del bohémien o un fedifrago mai sazio di amori, il protagonista dei racconti di Singer si regge in piedi, da vero funambolo o con le mille astuzie di una vita randagia, cercando una definizione, spesso distorta e irrigidita in mania ma pur sempre viatico per tenere una rotta.
È così che, sulle pagine di classici come Racconti da dietro la stufa, Lo spazzacamino e L’enigma, burbere e attempate signore, sospettose di tutto, ritrovano l’afflato umano dopo aver perduto le chiavi di casa, scapoli impenitenti incappano in mogli carceriere, per poi perdere tutto al gioco e finire felicemente sulla strada. O, ancora, donne senza figli, sempre in cerca di rimedi alla sterilità, vengono abbandonate dal marito, per poi mettersi sulle sue tracce facendo di questa peregrinazione un fine a sé.
Dentro storie che alternano descrizioni a grandangolo, dialoghi veloci e un uso sapiente del monologo narrativo, Singer disegna un sottobosco di personaggi inconciliati, umanissimi nella dignità come nella furberia, indirizzati al sacro e inclini al raggiro, mai rinunciando, in accordo al gusto del pubblico e al proprio, a quegli ingredienti che nelle sue trame tornano come costanti, ora più delicate ora più grevi, risolte con levità o sconfinanti nel kitsch.
Senso del tragico e inclinazione per il meraviglioso convivono sempre con un prevalere – specie nella fase più tarda, come nel caso di questa raccolta – di tinte stregonesche e pruriginose, dove la chiaroveggenza travasa nell’erotismo e l’occulto nel torbido. Ma viavai dall’aldilà alla Fifth Avenue passando per le rive della Vistola, revenant e spiritelli, qabbalah pratica e illusionismo, bulimie erotiche e nostalgie del sacro, pur presenti a intervalli regolari, non fanno, da soli, la cifra di Singer, neppure nei racconti più corrivi, per non parlare dei pezzi migliori.
Uno sgomento abissale
Una cifra che è bene in vista dove la corporeità si tinge di gnomico e viene a galla uno sgomento abissale che trascolora in rassegnazione: «Incontro i miei compaesani polacchi», dice il protagonista del racconto La tavola calda, «parliamo di letteratura yiddish, della Shoah, dello Stato d’Israele e spesso di conoscenti che l’ultima volta erano lì a mangiare budino di riso e prugne cotte e che adesso sono sotto terra. Il boccone si ferma in gola; ci guardiamo l’un l’altro confusi e i nostri occhi chiedono: chi sarà il prossimo. Poi riprendiamo a masticare».
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