Tutto accade in un cortile circondato da tre ordini di archi rinascimentali: siamo nella veneziana piazza San Marco, del fiorentino Jacopo Tatti detto il Sansovino, trasferita a Cipro. Qui si adunano le ambascerie della Serenissima, qui Jago distrugge le certezze di Otello, qui Desdemona viene umiliata davanti alla corte e agli ambasciatori veneziani, qui – per terra, e non sul suo letto com’è scritto nel libretto di Arrigo Boito –viene annegata da Otello in una vasca. Allex Aguilera, il regista, fedelmente seguito dallo scenografo Bruno de Lavenère e dalla costumista Françoise Raybaud Pace, immagina un impianto del tutto tradizionale e fedele all’ambientazione storica della vicenda; peccato che la promessa di realismo storico e di congruenza teatrale vengano compromesse da inverosimiglianze che una rappresentazione moderna, simbolica, potevano scongiurare.

LA SCENA unica avrebbe potuto prevedere un angolo, alla fine, dove collocare il letto sul quale Otello soffoca Desdemona: la fontana in cui l’affoga – lei stesa sul pavimento – rasenta il comico. Nonostante il suo proposito di nascondersi alla vista di Cassio, Otello sta invece in mezzo al cortile, così che tutti lo possono vedere. La gestualità approssimativa dei personaggi, appena sopportabile in una filodrammatica, sembrerebbe non essere sorretta da un’idea, sebbene qualunque, di recitazione.

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L’Otello, in scena l’altra sera al Teatro dell’Opera di Roma, è un’opera assai complessa, forse la più complessa del teatro di Verdi, immersa in un «tardo stile» – splendidamente spiegato dal mai troppo rimpianto Antonio Rostagno nel programma di sala – che porta sulla scena non più eroi di un mondo da salvare ma perdenti di un universo in dissoluzione: così appariva, al vecchio Verdi, l’Italia finalmente, ma malamente, unita. Di questa complessità, alla vista e alle orecchie di chi era a teatro non è arrivato quasi nulla. Nemmeno musicalmente. Un miracolo, certo, la prova di Gregory Kunde, che ormai settantenne avrà anche perso qualcosa dello smalto giovanile, ma ha conservato intatta la sensibilità e l’intelligenza musicale proprie di un grandissimo interprete: a parte l’intonazione ancora impeccabile, se ne ammira la flessibilità di fraseggio, l’adeguare la voce alle esigenze del dramma.

INIMITABILE, e finalmente a mezza voce, il lungo lamento sulla gloria perduta, nel terzo atto: «Dio! mi potevi scagliar …» Fanno invece parte di una recitazione che credevamo ormai in soffitta la volgare risata con cui Jago, Igor Golovatenko, conclude il suo demoniaco «credo». Né, del resto, un personaggio così ambiguo e sfuggente sembra particolarmente approfondito dal baritono russo. Decorosa la Desdemona di Roberta Mantegna e vocalmente appropriata, anche se l’innocenza e l’ingenuità del personaggio avrebbero richiesto più delicate sfumature. Tutti corretti, comunque, nel rispettare, sia pure senza approfondirne le implicazioni espressive, le indicazioni della partitura: il Cassio di Piotr Buszewski, il Roderigo di Francesco Pittari, l’Emilia di Irene Savignano, il Montano di Alessio Verna, il Lodovico di Alessio Cacciamani e l’Araldo di Leo Paul Chiarot, insieme al Coro e all’Orchestra del Teatro. Il punto debole sta nella concertazione di Daniel Oren, che legge, sì, con precisione, la partitura, ma sembra non intuirne la ricchezza di sfumature. O non preoccuparsi di farle emergere, conquistato dal fascino di un suono che stordisce.