Silvia Federici, se il femminismo parla al presente
ITINERARI Un percorso critico attraverso i saggi recenti della filosofa e attivista. Due raccolte che contengono scritti inediti: «Genere e Capitale» e «Caccia alle streghe, guerra alle donne». I testi vanno letti insieme, nel lungo arco polemico in cui hanno visto la luce, dagli anni ‘70 a oggi. Tra i riferimenti dell’autrice spicca il nome di Marx con cui tuttavia ha una relazione di confronto e scontro e da cui, negli anni, non si è mai congedata
ITINERARI Un percorso critico attraverso i saggi recenti della filosofa e attivista. Due raccolte che contengono scritti inediti: «Genere e Capitale» e «Caccia alle streghe, guerra alle donne». I testi vanno letti insieme, nel lungo arco polemico in cui hanno visto la luce, dagli anni ‘70 a oggi. Tra i riferimenti dell’autrice spicca il nome di Marx con cui tuttavia ha una relazione di confronto e scontro e da cui, negli anni, non si è mai congedata
Da tempo la riflessione di Silvia Federici (intervistata per queste pagine nello scorso gennaio, ndr) ha grande diffusione editoriale. Ne sono testimonianza la seconda edizione di Il punto zero della rivoluzione (ombre corte, pp. 158, euro 15, traduzione e a cura di Anna Curcio) e la pubblicazione di due nuove raccolte – Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx (DeriveApprodi, pp. 132, euro 12, a cura di Anna Curcio) e Caccia alle streghe, guerra alle donne (Nero edizioni, pp. 152, euro 15, traduzione di Shendi Veli). Ci sono, in entrambi i casi, contenuti inediti in Italia, insieme a saggi già noti riassemblati secondo due linee problematiche e di ricerca tra loro legate. Genere e Capitale espone il confronto e lo scontro di Federici con Marx, che in Caccia alle streghe trova un campo di applicazione nella comprensione femminista del processo di «accumulazione originaria» del capitale. I testi vanno letti insieme, bisogna farlo nel lungo arco polemico in cui hanno visto la luce – dagli anni ‘70 ai giorni nostri ‒ e ricercando gli strumenti che possono offrire alla critica e all’iniziativa femminista nel presente globale.
MARX NECESSARIO, Marx insufficiente. I termini tornano da oltre quarant’anni nel dibattito tra il femminismo e Marx, o tra il femminismo e il marxismo. Marx è necessario, secondo Federici, perché la sua analisi della riproduzione della forza lavoro ha offerto strumenti per concettualizzare la funzione della famiglia nel processo di valorizzazione del capitale, e con essa la profondità dell’antagonismo di classe anche fuori dai cancelli della fabbrica. Marx è necessario perché nella sua lettura della «cosiddetta accumulazione originaria» si trova la possibilità di comprendere come la violenza levatrice della società capitalistica si sia abbattuta sulle donne durante la caccia alle streghe della prima età moderna. Questa ricostruzione storica, posta al servizio della comprensione del presente, permette di mostrare che il processo di enclosure avvenuto in Inghilterra tra il XVI e il XVII secolo ha portato con sé un aumento del controllo statale sulla sessualità e sulla capacità procreativa delle donne; permette inoltre di ricostruire il modo in cui le donne sono state espropriate della loro autorità comunitaria, del loro ruolo di «tessitrici della memoria», dei loro saperi, delle loro autonome relazioni reciproche; permette infine di vedere come sono state respinte nello spazio domestico e incardinate alle funzioni riproduttive, oppure trattate come strumenti «pubblici» di soddisfazione sessuale piegati alle esigenze della disciplina del lavoro.
Così, per Federici, la caccia alle streghe è attuale in un duplice senso: primo, essa rende evidente la continuità dell’accumulazione originaria nella crescita esponenziale della violenza maschile contro le donne in Asia, Africa e America latina, una violenza legata ai processi di espropriazione ed estrazione che accompagnano l’espansione globale della società capitalistica; secondo, essa è l’innesco del processo storico di produzione tanto della casalinga e della prostituta come figure complementari e simmetriche della riproduzione sociale del capitale, quanto di un «tipo di individuo» disciplinato al lavoro.
IN QUESTA LETTURA si rivela la fondamentale insufficienza di Marx. Egli non vede, secondo Federici, che il capitalismo è una «controrivoluzione», ovvero la risposta delle élite feudali alle rivolte del proletariato urbano e rurale del XIV secolo, comprese quelle delle donne contro le recinzioni e la povertà. Marx non capisce che il capitale non ha creato la cooperazione sociale, ma ha spazzato via le forme comunitarie di relazione, di proprietà comune e lavoro cooperativo di cui le donne erano protagoniste. Siccome abbraccia una concezione «stadiale» della storia e dello sviluppo capitalistico «che produce tendenzialmente l’omogeneizzazione di tutte le forme di lavoro», Marx non ritiene necessario occuparsi del lavoro delle donne e di quello degli schiavi, forme di produzione arretrate e irrilevanti per il processo di valorizzazione del capitale e dunque anche dal punto di vista politico. La fede nel progresso e nello sviluppo tecnologico spiegherebbe, insomma, l’indifferenza di Marx verso forme di sfruttamento basate sul genere e la razza.
Anche se aspira a far maturare, da una prospettiva femminista, il «seme rivoluzionario» contenuto nella sua opera, è difficile non chiedersi per quale ragione Federici continui a riferirsi a Marx visto che ritiene la sua analisi sostanzialmente sbagliata, quando non connivente con lo sviluppo capitalistico. Ma a questo punto vale forse la pena domandarsi di quale Marx si parla, riconoscendo che ogni lettura di Marx è polemica e di questa polemica bisogna dare conto. Quello di Federici non è il Marx dei Manoscritti economico-filosofici in cui una parte del femminismo ha ritrovato la concezione storica della natura necessaria a contestare la subordinazione delle donne. Non è il Marx della riflessione sulle forme di proprietà precapitalistiche o dei Quaderni antropologici, che riconosce il carattere dispotico del patriarcato. Non è lo storico del globale valorizzato dal femminismo post-coloniale, che vede la capacità del capitale di assoggettare alle proprie logiche modalità di oppressione e sfruttamento eterogenee, senza produrre omogeneità. E non è, infine, il Marx e cronista del movimento sociale, che riconosce nella lotta degli schiavi per l’emancipazione o nella rivolta dei Sepoys in India imprevisti momenti della lotta di classe in pelle nera lontano da Manchester.
IL MARX DI FEDERICI è piuttosto quello di una «sinistra» incastrata nel determinismo scientifico di un certo marxismo novecentesco, e soprattutto quasi all’estremo opposto il Marx del «marxismo autonomo italiano» e in particolare quello di Antonio Negri, il quale vedrebbe nell’automazione e nella possibilità di eliminare il lavoro vivo dal processo di produzione «l’aspetto più rivoluzionario della teoria di Marx». Si tratta, appunto, di un uso polemico di Marx. Negli anni Settanta, questo è stato mosso dall’esigenza di fare del femminismo un momento autonomo della lotta di classe, rifiutando legittimamente il silenzio sul lavoro riproduttivo delle donne imposto dalla centralità esclusiva attribuita dal movimento operaio al lavoro salariato.
Negli ultimi anni, l’uso polemico di Marx è innescato invece dalla rilevanza che Federici riconosce – criticando un certo femminismo «sviluppista» – alle esperienze del femminismo popolare latino-americano, al ruolo delle donne nell’economia di sussistenza delle comunità africane, alle lotte di quelle indigene contro l’espropriazione. Queste esperienze riqualificano l’identificazione delle donne con il lavoro riproduttivo denunciata in Contropiano dalle cucine reinscrivendola nell’orizzonte dei commons, che a loro volta dovrebbero dare un senso nuovo alla parola comunismo. In questa prospettiva si manifesta l’urgenza, esplicitata da Federici, di produrre un «processo di rivalutazione sociale delle attività riproduttive» che permetta alle donne di essere autonome, anziché costrette ad accettare condizioni di lavoro e familiari degradanti e pericolose.
TUTTAVIA, questa enfasi sulla riproduzione comunitaria rischia di perdere di vista gli antagonismi sessuati che vivono all’interno di ogni comunità, ma anche il rapporto operativo tra le espropriazioni alle quali si oppongono le donne indigene e lo sfruttamento industriale del lavoro nelle metropoli di tutto il mondo, tra l’intensificazione della violenza maschile e la messa al lavoro delle donne nelle fabbriche, nei magazzini o nelle case, tra il razzismo e l’organizzazione transnazionale delle catene del valore e della cura.
E non è un caso che, nonostante il suo attivismo in America latina, scompaia dall’orizzonte politico di Federici il movimento reale dello sciopero femminista che negli ultimi anni ha tessuto connessioni globali tra questi piani eterogenei e tra le lotte che li attraversano. E che ancora dovrebbe essere una risorsa per rovesciare la svalutazione sociale del lavoro delle donne in una forza politica essenziale, transnazionale e collettiva contro le condizioni patriarcali e razziste di sfruttamento nella società pandemica.
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La versione integrale di questa recensione verrà pubblicata su connessioniprecarie.org
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