Cultura

Silvia Bigi, indagine poetica sull’identità dell’altra

Silvia Bigi, indagine poetica sull’identità dell’altraSilvia Bigi, «Are you nobody, too?» - Paris Photo 2023 foto di Manuela De Leonardis

ITINERARI CRITICI L’artista parla del suo progetto «Are you nobody, too?», ospitato a Parigi. Una prozia scoperta per caso sfogliando un album di famiglia permette di riflettere sui «buchi genealogici». «Ho usato "Speakpic", l’app che permette di far parlare il volto di una fotografia. L’algoritmo come protesi di assenza, mancanza. Cosa far dire a una donna che non aveva mai avuto voce?»

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 22 novembre 2023

«Fotografare una persona è avere una storia d’amore, per quanto breve», sosteneva Irving Penn. Centinaia di storie d’amore – corte o lunghe – raccontano, allora, i tantissimi volti di personaggi noti o anonimi che hanno composto il caleidoscopico rendez-vous della 26.ma edizione di Paris Photo, la più importante fiera internazionale di fotografia al mondo che si è svolta dal 9 al 12 novembre scorso nella sede temporanea del Grand Palais Éphémère a Parigi. La foto in bianco e nero di Berenice Abbott ritratta da Allen Ginsberg il 14 maggio 1985 (Fahey/Klein Gallery), reca i versi dell’autore beat che parlano di ciò che appare allo sguardo come una muta conversazione in cui tutto è connesso ma nulla rimane uguale: «O cara Berenice, è tutto negli occhi, tutto nella mente, tutto nel cuore dei venti sussurranti».

Una poetica che incontra la visione giapponese di autori quali Ishiuchi Miyako (Michael Hoppen Gallery) e Masao Yamamoto (Camera Obscura) che fissa il senso di mistero nel flusso della natura, quel «kawa» (fiume) che esprime metaforicamente l’idea della vita. Grande attenzione, poi, al lavoro politico di autrici di diverse generazioni, tra cui Grete Stern, Lotty Rosenfeld, Nan Goldin, Annegret Soltau, Laia Abril, Malekeh Nayiny, Dimakatso Mathopa, Frida Orupabo con un ulteriore riscontro nell’assegnazione del Photobook Award Paris Photo – Aperture (miglior catalogo) a The Public Life of Women: A Feminist Memory Project (Nepal Picture Library / photo.circle, 2023), a cura di Diwas Raja Kc e NayanTara Gurung Kakshapati, memoria corale del movimento femminista in Nepal. Su questa linea si colloca il progetto Are you nobody, too? dell’artista Silvia Bigi (Ravenna 1985, vive e lavora a Milano), presentato da Red lab Gallery che nel 2022 ha vinto il Premio F. Fabbri (Fotografia contemporanea), che a Parigi ha visto l’azione performativa A little poetic power to tell it to the world concepita come spazio fisico sull’identità femminile attraverso la poesia.

Silvia Bigi, foto di Manuela De Leonardis

«Are you nobody, too?» parte da una riflessione personale per diventare voce corale.
Questo progetto è frutto di un incontro casuale, avvenuto circa due anni e mezzo fa, cercando tra le fotografie di famiglia. Non sono tanto innamorata dell’archivio in sé, quanto delle storie che ogni volta mi permette di ritrovare. È come un vaso magico. In qualche modo, ogni storia familiare è speciale. In questo caso, tra varie altre ho trovato questa fotografia in cui è inquadrato un volto di donna. Mi ha colpito che avesse delle «stranezze», era una foto sgranata, sfocata con questo volto elusivo. Ho chiesto ai miei genitori chi fosse quella persona di cui non sapevo l’esistenza e ho notato un certo imbarazzo. Avevo trovato uno scheletro nell’armadio! Si tratta della storia di Irma, la mia prozia che è stata nascosta per tutta la sua vita nella casa paterna, a causa di una malattia mentale non diagnosticata e per la quale la famiglia, evidentemente, provava una certa vergogna. Era nata nel 1918 e in quella foto sembra avere una ventina d’anni, quindi siamo intorno agli anni Quaranta.

Da subito mi ha colpito che ci fosse stata un’omissione genealogica, infatti per molto tempo si è parlato di una famiglia di sei fratelli di cui mia nonna era la primogenita. Invece, ho scoperto che era lei la primogenita di sette figli. Tutta la storia si svolge a Linaro, un piccolo paese sulle colline del cesenate, nel comune di Mercato Saraceno. Negli ultimi anni della sua vita, una volta morto suo padre, Irma venne internata in un ospedale psichiatrico ma in tutti gli altri aveva vissuto in casa da reclusa. Nessuno l’aveva mai vista. Mio padre la vide una volta di sfuggita, proprio alla morte di suo padre. Questa fotografia è l’unica immagine che attesti la sua esistenza, non ne abbiamo trovate altre. È anche la foto che si trova sulla sua lapide nel piccolo cimitero. Se l’immagine fotografica è un documento della nostra identità, in questo caso quest’unico documento è sfuggente, come fosse stato fatto ad una certa distanza e, forse, con paura. Un’immagine forte e pervasiva che ho deciso di portare con me in studio, a Milano, senza sapere cosa ne avrei fatto. Per un anno è stata davanti ai miei occhi, attendendo che arrivasse un’intuizione, finché non ho capito che dovevo far parlare Irma per la prima volta perché il mondo potesse sentire la sua voce. Una voce che ovviamente non c’è.

Quindi è intervenuta con la tecnologia.
Ho usato «Speakpic», un’app che permette di far parlare il volto immobile di una fotografia. L’algoritmo come protesi di assenza, mancanza. Dovevo però capire cosa far dire a una donna che non aveva mai avuto voce. Tra le varie ricerche ho scoperto il libro Glitch Feminism: A Manifesto di Legacy Russell in cui l’autrice parla di come l’azione politica più forte sia il «glitch», cioè l’interferenza rispetto al controllo dell’identità sociale e, soprattutto, l’alleanza, il farsi voce collettiva. Così ho cominciato a ricercare tra le autrici, soprattutto le poetesse del Novecento, tutte quelle frasi che mi toccassero le corde della sensibilità.

Voci silenziate rispetto a tutto ciò che riguarda effettivamente quella che penso sia una labile definizione tassonomica di sanità mentale. Ho trovato sia autrici molto note come Virginia Woolf o Sylvia Plath, che altri nomi più dimenticati tra cui Elise Cowen, Marina Cvetaeva, Gaspara Stampa, Zelda Sayre Fitzgerald. Ho raccolto le loro frasi, come se fosse un collage letterario, che si sono rimescolate attraverso la tecnologia creando un macrotesto. Funziona perfettamente, come se fosse stato scritto da una sola persona. Il video ha la funzione di mettere in relazione la mia storia personale, l’archivio, l’uso della tecnologia e un discorso politico sul nostro rapporto con la mente e la normalizzazione delle varie sensibilità esistenti.

A little poetic power, di Silvia Bigi - foto di Manuela De Leonardis
Insieme al video ci sono immagini sequenziali: qual è, invece, il ruolo della performance?
La serie di immagini è costituita dagli still prelevati dal video, non da foto originali. Nessuna è la vera foto, eppure tutte riconducono a quella. Ancora una volta gioco sulla lettura critica dell’immagine fotografica, cioè sul fatto che essa abbia ancora il potere di attestare la verità, qualunque cosa voglia dire. Anche se sappiamo che le immagini possono mentire, una parte di noi – molto profonda e corporea – quando vede una serie di foto pensa che quella cosa sia accaduta ed è ciò che volevo che succedesse, ovvero che questa mia immaginazione – la contro-storia creata da me – diventasse un oggetto concreto.
A Parigi la performance si svolge in cinque giorni. Anche in questo caso ho chiesto all’algoritmo di mescolare il testo in maniera randomica e ogni giorno viene letto in una drammaturgia diversa. Le performer indossano un abito nero realizzato dalla scenografa e costumista Maria Barbara De Marco. Una tunica lunga nera in cui l’unica mia richiesta è stata che il colletto ricordasse quello della fotografia. Su ogni abito sono state ricamate con il filo bianco le parole che vengono lette dalle ragazze. La pluralità di voci rappresenta una corporeità collettiva che rivendica il proprio diritto a un potere poetico che è essenzialmente politico.

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