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Shoah, le note tragiche del jazz

Shoah, le note tragiche del jazzI Ghetto Swingers a Terezin

Memoria 2/Una schiera di musicisti di origine ebraica perseguitati nel cuore della Vecchia Europa Austria e Olanda i paesi più colpiti, ma anche in Italia non mancarono le persecuzioni. La strana vicenda di Oscar Klein

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 27 gennaio 2018

I primi artisti perseguitati, appena Hitler sale al potere, sono alcuni ebrei tedeschi vicini al jazz medesimo: da un lato il commediografo Bertolt Brecht, che si diletta al banjo con il dixieland e che chiederà a Kurt Weill di comporre alcune song «americane» per l’Opera da tre soldi; dall’altro l’allora famosissimo sestetto berlinese The Comedian Harmonists: tre di loro – Harry Frommermann, Roman Cycowski, Erich Abraham-Collin – sono ebrei e già nel 1933 fanno le valigie alla volta dell’America per dar vita a un gruppo analogo dallo stesso nome; i tre rimasti in patria non sono però d’accordo e la querelle non si risolve nemmeno a suon di carte bollate, con l’ulteriore aggravio di una fine ingloriosa e di un oblio repentino per entrambe le formazioni.

Tra i musicisti a subire l’ingiuria nazista risultano soprattutto i compositori austriaci, tacciati di Entartete Musik (musica degenerata), la cui decadenza sembra originata «dall’influenza del giudaismo e del capitalismo»: vengono quindi esiliati ad esempio Ernst Toch, Paul Hindemith, Ernst Krenek (autore dell’opera-jazz Jonny Spielt Auf), mentre finiscono e scompaiono nei lager Viktor Ullmann ed Erwin Schulhoff. Altra illustre vittima resta Anton Webern, ucciso per sbaglio da un soldato americano il 15 settembre ’45 in una Vienna già in spirito da guerra fredda: la sua ricerca definita dai nazisti «bolscevismo culturale» influenzerà la successiva musica postdodecafonica (free jazz compreso) sino ai nostri giorni.

ESULI

Negli Stati Uniti gli esuli si avvicinano al jazz scrivendo, come Weill, musical su commissione oppure, nel caso di Arnold Schoenberg, stringendo amicizia con George Gershwin, ma senza tradire la propria idea, a costo di patire la fame, a differenza di un Igor Stravinskij che accetterà, per un mucchio di soldi, di comporre i 30 secondi della sigla (ancora oggi usata) di una nota casa di produzione cinematografica.

Ma è nella tragedia della Shoah, nel cuore della vecchia Europa in guerra, persino nel jazz, che si consumano casi estremi o al limite oggi più e meno noti. Partendo dall’Italia, il Trio Lescano – le sorelle olandesi Alessandra, Giuditta, Caterinetta Leschan di madre ebrea, attive alla Eiar, su disco o in concerto, dal febbraio ’36 al novembre ’43 – viene chiamato in questura a Genova con l’accusa di spionaggio: decide perciò di riparare, fino alla Liberazione, in un alberghetto della Valle D’Aosta: di fatto la carriera delle ragazze è rovinata e sorte ancor peggiore tocca a un loro ignoto chitarrista, finito ad Auschwitz.

L’Italia è invece la salvezza dell’armonicista austriaco Oscar Klein, la cui famiglia viene internata, mentre lui, quattordicenne, riesce a nascondersi in Veneto, nei casolari di Thiene, sino al temine del conflitto, diventando poi, in Germania, tra i massimi dixielander europei.

In Olanda il celeberrimo duo Johnny & Jones – voce e chitarra, al secolo Nol Van Wezel e Max Kannewasser – viene arrestato nel 1943 e condotto nel transito di Westerbork, dove nel ’44 riesce a incidere clandestinamente sei facciate (tra cui una magnifica dolente Serenade): quindi la trafila di Theresienstadt, Auschwitz, Sachsenhauser, Ohrdruf e Bergen-Belsen dove Johnny muore il 20 marzo ’45 e Max il 15 aprile (il giorno stesso della liberazione del campo). Miglior destino ha Louis Bannet, l’«Armstrong olandese», autorevole tanto alla tromba quanto al violino: catturato dalla Gestapo il 15 dicembre ‘42, trascorre la prigionia soprattutto a Birkenau, formando persino una jazz band per allietare le serate dei carcerieri: liberato a Buchenwald, si trasferirà a Toronto (dove muore ottantenne nel 2002) suonando per la Canadian Army.

Assurda e paradossale la vicenda dei cechi The Ghetto Swingers, di cui in Italia vergognosamente mancano bibliografia e filmografia: la band formata dai migliori jazzmen ebrei dell’Est Europa è costretta a esibirsi nel lager «modello» di Theresienstadt (Terezin): quando la Croce Rossa fa visita al campo, i nazisti allestiscono un finto bar e costringono l’orchestrina a improvvisare allegramente sotto l’occhio delle cinecamere, per poi, all’insaputa degli osservatori neutrali, spedire, il giorno dopo, il clarinettista Fritz Wess e l’attore Kurt Gerron (tedesco, il primo a cantare la brechtiana Mackie Messer) nelle camere a gas (tra l’altro poche ore prima che Himmler decida di chiudere l’impianto).

GHETTO SWINGERS

Tra i molti Ghetto Swingers che si alternano come solisti o accompagnatori figura anche il giornalista Josef «Pepek» Taussig (al trombone per diletto con gli altri jazzmen), muore a Flossenburg un mese prima dell’arrivo degli Alleati. La stessa sorte tocca probabilmente a tutti i jazzisti di Terezin: in ordine alfabetico Bauer (percussioni), Brammer (piano), Donde (sax tenore), Fasal (contrabbasso), Goldschmidt (chitarra), Haber (sax tenore), Kantor (violino), Langer (sax tenore e clarinetto), Libensky (contrabbasso), Mautner (trombone), Nettl (fisarmonica), Ratner (violino). Gli unici superstiti, finita la guerra, risultano il pianista berlinese Martin Roman (1910-1996), il trombettista ceco Eric Vogel, il quale riesce a sfuggire ai sorveglianti durante la marcia forzata da Terezin a Dachau (dove l’aspetta il patibolo), al pari del chitarrista Coco Schumann.

Schumann (classe 1924), sconvolto, ripara in Nordamerica, suonando poi con Marlene Dietrich ed Ella Fitzgerald, senza mai raccontare nulla fino al 1997 quando dà alle stampe il Diario The Ghetto Swingers per levarsi di dosso un fardello psicologico enorme (costretto ad esempio a suonare durante esecuzioni e torture); e torna nella Berlino riunita a suonare, con spirito giovanile, nei club, con la chitarra elettrica da lui stesso brevettata.

Coco non fa jazz politico, giacché l’idea di connotare la musica di temi impegnati, dal generico antifascismo a un dettagliato esame dello sterminio ebraico, spetta alle generazioni successive, come fanno dagli anni Sessanta gli esponenti del free jazz al di qua e al di là dell’Atlantico, o come avviene di recente, omaggiando la storia con Mothersday (2013) di Alexa Rodrian e Asamba (2017) di Fischer e con l’antologia A Tribute to Coco Schumann’s Ghetto-Swinger (2012) del Powerhouse Swingtett. Tuttavia spetta a un autore colto, il veneziano Luigi Nono, comporre la musica più significativa sull’Olocausto: Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz (1966) è ispirato a un dramma di Peter Weiss ambientato nel campo di concentramento.

Esiste altresì una new wave di jazzisti israeliani – ad esempio Anat Cohen, i due Avishai Cohen, Anat Fort, Asaf Sirkis, Rotem Sivan noti internazionalmente -, figli dei superstiti dei Lager, che però sembra più interessata a coltivare lo studio in musica dell’antica cultura giudaica, magari per aggiornarla o modernizzarla: un percorso intrapreso volando a New York dove alcuni sperimentatori, da John Zorn a David Krakauer, già dagli anni Ottanta propongono la cosiddetta New Jewish Culture, mescolando, ad esempio, la classicità klezmer con l’avanguardia jazz, post-rock, fusion. Controcorrente appare la posizione del sassofonista Gilad Atzmon, che da Tel Aviv si trasferisce a Londra, diventando cittadino britannico e propugnando, anche mediante libri, saggi, interviste, una battaglia antisionista che gli fa persino dire che «oggi Israele è peggio del regime nazista».

Anche in Italia, infine, il sassofonista Gabriele Coen dapprima con il gruppo Klezroym, poi come leader della Jewish Experience, quindi a proprio nome, pubblica, dal 2009 a oggi, almeno 4 album – Golem, Awakening, Yiddish Melodies in Jazz, Sephiroth. Kabbalah In Music – dove la Giornata della Memoria viene indirettamente omaggiata recuperando la cultura ebraica dispersa dallo sterminio, ma ora riabilitata con (post)-moderno sentore e critico sentire.

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