Sfruttamento femminile nella pòlis: obliterato!
Tra le direttrici di attacco della cosiddetta cancel culture nei confronti dei classici greci e latini campeggia la questione del sesso: molti testi antichi sarebbero da espungere dai programmi universitari in quanto sessisti. Quanto ha pesato l’asse del genere nel dibattito giornalistico e accademico sulla censura dei classici? Per affrontare la questione in maniera equilibrata sono necessari alcuni distinguo. Innanzitutto, sotto l’etichetta di cancel culture o woke culture vengono impropriamente sussunti dalla vulgata giornalistica (e non solo) fenomeni tra i più disparati, per natura, finalità e grado: #Me too, abbattimento di statue, boicottaggi di aziende, meccanismi di call out, censure di autori e testi. Limitando lo sguardo alle censure, molte delle notizie sulla soppressione di classici dai curricula scolastici, soprattutto britannici e statunitensi, sovente si sono rivelate travisate, come nel caso più noto (e frainteso) della riforma di Princeton. Al netto di questi travisamenti un fenomeno censorio esiste: la misoginia degli antichi viene attaccata dalle frange estreme del movimento #Disrupt Texts e i siti di alcune università anglosassoni si scusano per il sessismo degli autori proposti agli studenti, anche se, più che una censura, questo atteggiamento pare spesso un tributo di maniera (e di cautela) al «politicamente corretto» e alle identity politics.
Come si pone il mondo accademico riguardo al sessismo degli antichi? Poiché il mondo classico è indiscutibilmente patriarcale e basato su una netta diseguaglianza tra gruppi sociali anche sull’asse del sesso, si potrebbe pensare che, nel clima censorio descritto dai giornali, gli storici dell’antichità e gli specialisti di gender studies si dedichino assiduamente all’analisi e alla denuncia di questa specifica disuguaglianza e dell’ideologia sessista che la giustifica nelle rappresentazioni letterarie, nella filosofia, nella medicina, nel diritto antichi. In verità le cose non stanno affatto così. Negli ultimi decenni, nel solco di un importante filone di studi che grazie alle fonti epigrafiche e documentarie ha riportato alla luce i rilevanti ruoli produttivi e religiosi femminili, molte storiche hanno prodotto ricostruzioni che si spingono a negare o ad attenuare la subordinazione delle cittadine antiche (diverso è il discorso per le meteche e le schiave).
La prospettiva oggi prevalente sulla Grecia, soprattutto in area francofona (ad esempio i volumi miscellanei: Violaine Sebillotte Cuchet, Nathalie Ernoult, Problèmes du genre en Grèce ancienne, Éditions de la Sorbonne 2007; Sandra Boehringer, Violaine Sebillotte Cuchet, Hommes et femmes dans l’Antiquité grecque et romaine, Armand Colin 2011), è in buona sostanza la seguente: le cittadine delle diverse poleis non godevano di diritti politici attivi e passivi e le loro prerogative economiche erano limitate; tuttavia la concezione antica della cittadinanza non era basata solo sull’accesso alle magistrature e agli scambi, ma includeva altre funzioni percepite come centrali dalla polis, legate alla famiglia e alla relazione collettiva con gli dèi e i concittadini. I due sessi sociali, dunque, ciascuno occupandosi di specifici compiti, svolgevano un ruolo nella sfera politica, ovvero tutto ciò che concerneva le pratiche sociali e le attività della città. Su queste basi i ruoli femminili sarebbero definibili in quanto pienamente «politici» e complementari a quelli maschili. Secondo queste storiche, la tutela (kyrieia) che gli uomini della famiglia esercitavano sulle loro mogli, figlie e sorelle era soltanto formale e la agency delle cittadine sul piano economico molto più ampia di quanto si credesse. Questo filone di studi, inoltre, afferma l’assenza di una classificazione binaria uomo/donna strutturante delle identità degli individui antichi.
Ben lungi dal rimarcare il sessismo degli antichi secondo i dettami (o presunti tali) della cancel culture, dunque, le tendenze attuali della storiografia accademica soprattutto francese spingono per un ridimensionamento della visione tradizionale della subordinazione delle cittadine greche.
Questa operazione è resa possibile talora da un uso disinvolto delle fonti, che conduce alla generalizzazione di alcuni fenomeni di autonomia femminile sulla base di documentazione esigua o di controversa interpretazione; ma soprattutto essa risente di un profondo culturalismo e di un altrettanto radicato anti-materialismo. Il parametro usato per misurare l’esistenza di una classificazione dicotomica tra il gruppo sociale degli uomini e quello delle donne, infatti, è il concetto di identità e non le condizioni materiali di esistenza. Per stabilire quale criterio abbia un ruolo organizzatore in un sistema sociale nel suo complesso serve in primo luogo valutare se in esso l’opposizione maschio/femmina dia luogo a una divisione del lavoro, a ruoli e mansioni diversi e di diverso valore sociale, e dunque a una gerarchia: nel mondo antico l’essere dotati di una diversa anatomia e fisiologia riproduttiva dava appunto luogo a una divisione del lavoro e a una gerarchia, sul piano economico, sociale e dei diritti. Le cittadine non potevano accedere alla milizia e dunque al soldo militare né usufruire dei sussidi statali, ereditavano in misura minore rispetto ai fratelli, in ogni atto formale dovevano essere rappresentate da un uomo della famiglia, che aveva il diritto di concederle in moglie senza il loro consenso, di dare inizio alla procedura di divorzio, di rappresentarle in tribunale e nella stipula di contratti, di gestirne la dote incamerando i frutti degli investimenti. Solo eliminando questi dati materiali e concentrandosi sulla sfera del simbolico e dell’identità è possibile, per dirla con Marx, «allentare tranquillamente le briglie al destriero speculativo».
L’unica forma di cancellazione che permea questo filone di studi, dunque, è quella che colpisce le condizioni di vita materiale delle cittadine delle poleis greche e la profondità non solo della loro oppressione, ma anche del loro sfruttamento, una nozione spesso obliterata quando si parla di donne: pur nelle differenze legate alla polis di appartenenza, allo status economico e sociale e alla classe di età, le cittadine antiche erano sottoposte a un rilevante sfruttamento del loro lavoro, domestico ed extra-domestico. È proprio l’importanza recentemente riabilitata dei loro ruoli economici in rapporto alla minorità dei loro diritti a rivelare la profondità di questo sfruttamento, che, ad esempio nel caso ateniese, insieme allo sfruttamento degli schiavi e all’imposizione di tributi agli alleati, permetteva il mantenimento del sistema e, in ultima analisi, contribuiva a garantire i diritti e la libertà dei cittadini maschi.
La diffidenza post-modernista verso la costruzione di teorie generali, lo slittamento verso la psicologizzazione e l’individualizzazione dei fenomeni sociali, e la tendenza culturalista a capovolgere il rapporto logico e cronologico tra l’appropriazione maschile delle donne e l’ideologia sessista che la naturalizza, presenti anche in molte analisi femministe della contemporaneità, non sono estranee a questa forma di cancellazione.
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