Se l’ozio è foriero di libertà e resiste nelle stanze tutte per sé
SCAFFALE «La fatica di essere pigri», di Gianfranco Marrone per Raffaello Cortina
SCAFFALE «La fatica di essere pigri», di Gianfranco Marrone per Raffaello Cortina
Nel 1963 Andy Warhol filma il poeta e amico John Giorno immerso nel sonno. Sleep, il suo torace che respira, la bocca e il naso da vicino, il corpo quasi immobile, è la quintessenza del racconto antiaristotelico, un’ode a Morfeo sovversiva della classica correlazione «sonno=morte/movimento=vita». Passivo il regista, passivo l’attore, l’intera fatica la fa lo spettatore, costretto all’esperienza limite dell’osservare per 5 ore e 20 minuti un uomo che dorme. Forse, a un certo punto, traendone ispirazione, perché l’attivismo priva l’umano di fantasia, è – per dirla con Oscar Wilde – «l’ultima risorsa di coloro che non sanno sognare».
La fatica di essere pigri (Raffaello Cortina, pp. 163, euro 14) di Gianfranco Marrone rivisita questo modello del dolce far niente, disprezzato e ostacolato nelle società della capitalizzazione. A poco meno di cent’anni dall’Elogio dell’ozio (1932) di Bertrand Russell, questo nuovo saggio sulle scelte di vita torna a insegnare tattiche di divergenza, oggi che non è più un’utopia. Con la sagacia dei semiologi Marrone fiuta l’aria dei tempi. Ci voleva il covid-19 per mettere in crisi un sistema di valori tutto produzione e consumo, prestanza perfino negli hobby. La quarantena ha privato del diritto e dell’obbligo del lavoro, svelando quanto sia inutile affannarsi e preziosa l’inerzia.
UN CAMBIAMENTO di abitudini impossibile per molti individui e popoli, mimetizzati da «stacanovisti» ma affetti dalla sindrome del workaholism e perciò pronti a qualsiasi cosa, anche al contagio, pur di mantenere la dipendenza. Nel Diritto alla pigrizia (1883) lo diceva Paul Lafargue, litigando con suo genero Marx, che il lavoro sfrenato è il più terribile flagello dell’essere umano.
Il libro di Marrone apre gli occhi sulla pigrizia sia come disposizione personale, nei temperamenti flemmatici, sia come conquista, quando è un modo di esistenza alternativo alle soverchierie del lavoro. In un’indagine a tutto tondo l’autore evidenzia gli aspetti somatici e passionali del pigro, che sono intersoggettivi: il muoversi lentamente e mollemente, il rimandare e differire, la calma, l’apatia, l’indolenza, la riluttanza. E include nella configurazione della pigrizia da un lato l’otium dei latini, l’aristocratico ritiro dal negotium pubblico per dedicarsi alle arti e alle scienze, condizione di felicità, dall’altro il buddhismo zen. «Seduto pacificamente senza far nulla, vien la primavera e l’erba cresce da sola» è l’haiku che meglio sintetizza questa filosofia della ripulitura mentale e del godimento attraverso l’abbandono della volontà di trasformazione del mondo e assecondando l’evento, il potenziale di situazione.
EPPURE «l’ozio è il padre di tutti i vizi». Manuali di buone maniere, proverbi, libri scolastici, catechismi, gazzette dei giornali mostrano fino a che punto la pigrizia è stata oggetto di disapprovazione morale, come inattività nella quale si langue e che sarebbe causa di disordine e di piaceri del corpo ardenti e nocivi. Inevitabile ricordare il trattamento riservato da Dante agli accidiosi, l’opposizione netta fra la cicala e la formica, il ritratto dell’accidia nell’Iconologia di Cesare Ripa, «donna vecchia, brutta, mal vestita e che tenghi la guancia poggiata sopra il sinistro mento». Chiaramente – nota Marrone – la triade lavoro/ozio/pigrizia non funziona nello stesso modo in culture diverse. Così per gli spagnoli il lavoro è peggio delle schiavitù, nelle fiabe russe è costante il nesso fra pigrizia e calore e di qui ai luoghi comuni dovuti al determinismo geografico è un passo: i più pigri sono i meridionali, i latinoamericani, mentre i popoli del Nord, in Europa come in America, sarebbero gran lavoratori, temprati da temperature rigide. In generale lo studio attento delle etimologie del termine «pigrizia» porta a galla una sovrabbondanza di connotazioni negative. In latino piger è una parola ottenuta in cavo da a-ergos, un privativo dell’azione operosa; in francese la paresse è apparentata alla paresi; nell’inglese lazy, dal germanico laisch, è presente la marca della stanchezza; il tedesco faul, dal germanico ful, significa anche «marcio», «puzzolente», «ammuffito», da cui l’antico inglese foul, che diventa fool; il portoghese preguiça viene dal latino pigere, lamentarsi, alla stregua del siciliano lagnusia, lagnanza, insofferenza verso l’agire, che in Sciascia (Occhio di capra) ha una piega positiva: «O santa lagnusìa, ‘un m’abbannunari / ca mancu spieru abbannunari a tia».
PERSONAGGI PIGRI per eccellenza sono al centro di analisi argute e spassose: dall’Oblomov di Goncharov, restio a qualsiasi norma e che Marrone considera trasposizione letteraria dei vari Cinderello, Stufino, Cenerentola e Sudiciona delle fiabe, al Bartleby di Herman Melville, memorabile per la formula «preferirei di no»; da Snoopy pigro puro perfetto, che dorme e basta, all’antieroe Paperino per il quale il riposo è il programma di base e il lavoro lo strumento per ottenerlo.
Il minimo comune denominatore di questi personaggi, e del libro rispetto ad altri dello stesso genere, è che qui la pigrizia non è vissuta o coltivata nel distacco dal mondo, o come svago, tempo libero dopo il lavoro ma che lo presuppone tacitamente. Interseca invece i ritmi della quotidianità, spezzandoli con continui diversivi. Una frattura che richiede infinite lotte contro antagonisti di ogni tipo per essere aperta – una passeggiata, un silenzio in cui si dragano ricordi e sensazioni, una stanza tutta per sé – dove arrivare a non dire più «io».
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