Charif Majdalani è uno dei maggiori scrittori libanesi di lingua francese. Autore di una decina di romanzi, in Italia è conosciuto soprattutto grazie alla traduzione de La Casa nel giardino degli aranci (Giunti, 2007) e de La Villa delle donne (Astarte, 2021). Alcuni critici hanno definito Majdalani «il Proust del Libano», per il tipo di prosa, agile e stilisticamente curata che lo contraddistingue, in grado di esprimere le diverse manifestazioni in cui si articola il pensiero interiore, ma altresì gli eventi, anche minuscoli, che accadendo generano la Storia.
«L’argomento principale dei miei libri è il tempo – afferma l’autore – In particolare, mi interessano le trasformazioni che la Storia apporta e impone, e i diversi modi con cui gli uomini li affrontano, negando o rifiutando di vederli, mediante strategie di accompagnamento o di resistenza».

Nei suoi romanzi, la Storia si presenta spesso come la vicenda di una famiglia colta attraverso le generazioni: come in « La casa nel giardino degli aranci», ne «L’Empereur à pied» o ne «La Villa delle donne». Perché partire da un nucleo familiare per mostrarne l’evoluzione nel tempo?
Il destino delle famiglie equivale un po’ a quello degli imperi e delle società: nascono, hanno momenti di grandezza, poi declinano, crollano e scompaiono se non sanno adattarsi. Qualcuno ha paragonato i miei libri, per esempio Le Dernier Seigneur de Marsad, al Gattopardo di Lampedusa. Ma mentre il principe Salina in Lampedusa finge di accompagnare i cambiamenti e di favorirli per la propria sopravvivenza, il personaggio del Dernier Seigneur de Marsad rifiuta di accettare che le cose mutino e così è trascinato via dai rivolgimenti della sua epoca.
È vero che tutti i miei libri parlano di luoghi, case e quartieri. Ma la casa (e tutto ciò che la ingloba, la via, il quartiere) è più di un semplice spazio o di muri. La casa è anche il clan, la famiglia in senso ampio, come indica la parola araba El beyt (la casa), il cui significato è identico al greco oîkos. Le due parole significano a un tempo «il tetto» e «la famiglia» che quel tetto ripara, ma famiglia nel senso di quelli che hanno lo stesso «sangue», che appartengono a uno stesso insieme clanico o comunitario. Mi interessa soprattutto studiare come nasce un clan in rapporto a uno spazio, come una classe di notabili familiare e comunitaria diventi politica, evolva, e soprattutto come crolli. La Storia del Libano si è costituita attorno alle grandi famiglie dei loro capi, che sono anche capi di comunità. Io esploro il loro funzionamento e il loro divenire. Ma dall’interno, a partire dall’intimo, dal quotidiano. C’è una cosa alla quale tengo più di tutto: è l’alternanza, nella narrazione, di eventi legati al tempo lungo e quelli legati al tempo corto, che chiamo la routine dei giorni. Ma quel che tento anche di fare di libro in libro è raccontare la storia della città di Beirut e dei suoi quartieri, che nel corso dei secoli e dei decenni hanno cambiato popolazione a causa di migrazioni, trasformazioni demografiche, economiche, sociali, e soprattutto dei conflitti recenti tra le comunità.

In Italia, il Libano evoca i fantasmi di una lunga guerra civile, conclusasi con l’amnistia del 1991. Ripercorrere i capitoli principali della storia del paese ha anche lo scopo di comprendere le ragioni profonde che hanno condotto a quel periodo di rivalità intestine?
La storia del Libano non può riassumersi nella sola guerra civile di fine Novecento. Al contrario, quest’ultima è il risultato di un passato assai più vasto, complesso e ricco, ma anche difficile, fatto di periodi di coesistenze e di conflitti, tra un insieme di popolazioni e di comunità religiose che hanno finito per riunirsi in una nazione, di cui non sono però riusciti a definire la vera identità. Questa incomprensione su ciò che il Libano rappresenta ha causato gli innumerevoli conflitti occorsi. Ogni gruppo e ogni comunità ha la sua visione del Libano in funzione della propria storia, del proprio passato, del modo con cui concepisce il proprio posto nel paese e nel mondo. Il libanismo, l’occidentalità, l’arabità che ogni gruppo esprime sono tutti serviti a definire la natura del Libano.
A un certo punto, è stato quindi necessario scrivere una storia ufficiale omogenea che cementasse l’insieme. Quella narrazione nazionale è stata però costruita a prezzo di scorciatoie, di strategie di amputazione, di volontari oblii, per creare un passato e un presente levigati e accettabili per tutti. Ma ciò ha avuto solo effetti disastrosi, proprio come ogni rimozione o ogni non-detto produce effetti perversi su scala individuale. Per questo, oggi la letteratura libanese svolge un ruolo correttivo nel rileggere la storiografia ufficiale, decostruendola, e serve soprattutto a ridire il paese reale e la sua vera storia con le sue contraddizioni, le sue complessità, la sua ricchezza non sempre generatrice di modelli idilliaci. Tutto questo appassiona, perché a ben vedere ci si accorge che tutti i problemi del Libano sono in miniatura i problemi dell’umanità intera: coesistenze comunitarie, elaborazione di un vivere-insieme, costruzione di una cittadinanza a scapito delle appartenenze comunitarie o religiose, e di uno stato democratico contro le vecchie modalità di asservimento sociale e politico su basi claniche, familiari o razziali…

In «Beyrouth 2020. Journal d’un effondrement», pubblicato a ridosso della deflagrazione che il 4 agosto 2020 ha devastato il porto di Beirut e l’intera città, lei descrive i fattori che hanno condotto il paese all’attuale situazione di corruzione e degrado. Come considera ora la condizione del popolo libanese?
Ho spesso ripetuto, e soprattutto l’ho scritto in Beyrouth 2020 che l’esplosione nel porto della città è stata come la metafora del condensarsi di tutti i problemi che il Libano ha vissuto dalla fine della guerra civile, trent’anni fa. Invece di costruire un paese nuovo, siamo stati costretti a cacciare i capi militari, che si sono semplicemente trasformati in uomini politici senza cambiare, conservando anzi in tempo di pace il loro modo di vedere il mondo, il loro rapporto coi cittadini e la loro assenza di scrupoli in ogni campo. Il risultato sono stati trent’anni di malgoverno, di corruzione, di clientelismo, di trasformazione del rapporto tra cittadino e Stato in rapporto mafioso, di confisca di tutti gli ingranaggi del potere, a vantaggio di una casta o di una oligarchia che ha fagocitato e asservito l’amministrazione, distribuendo una parte delle immense ricchezze della Ricostruzione alla sua clientela comunitaria con la complicità delle banche. Ciò non poteva che sfociare in un immenso disastro, di cui l’esplosione del porto è il simbolo. Quel che occorre ormai è un cambiamento radicale della casta politica, una completa rifondazione dello stato e del sistema bancario. Ma ciò si realizzerà, solo a condizione che l’oligarchia politica attuale ne sia esclusa. Ed evidentemente non è pronta a farlo. Fino alle elezioni legislative del maggio scorso, si pensava che non sarebbe successo nulla. Invece, hanno permesso una svolta formidabile, con l’entrata in parlamento di 14 deputati provenienti dalla rivolta dell’ottobre 2019. Tutti giovani uomini e donne che si erano battuti durante la sollevazione popolare ed erano stati feriti e arrestati sotto le mura del Parlamento. È sicuramente l’inizio di un cambiamento. Ed è il più bel messaggio di speranza per una gioventù, finora in preda alla disperazione e con un solo scopo: partire.

Un altro aspetto molto interessante del suo lavoro riguarda la concezione della Storia, ulteriormente esplicitata nell’ultimo dei suoi romanzi, «Dernière Oasis» (Actes Sud, 2021), non ancora tradotto in Italia. Può dirci qualcosa?
Nei miei precedenti romanzi, le vicende famigliari riguardavano anche i cambiamenti epocali prodotti dalle violenze della Storia. In Dernière Oasis è ancora così, benché diversamente. Il protagonista vive due mesi in una piantagione del nord Iraq, in un’atmosfera fuori del tempo e dello spazio, finché le violenze degli eventi non giungono a travolgere tutto. In quel libro, ho quindi riflettuto sui meccanismi puri della Storia, sui casi, sulle incertezze degli uomini e spesso anche sulla loro incompetenza, evidenti nei tentativi di controllare il corso delle cose, che sfociano nei grandi disastri storici. Ciò giunge in risposta alla falsa idea per cui il corso del mondo, e dunque a posteriori della Storia, risponde a una coerenza interna, all’illusione secondo cui gli eventi sono controllati dagli uomini e dalla loro azione, o sono frutto del dominio di potenze economiche (o persino di forze occulte che complottano senza fine). In realtà, tutto ciò che l’uomo tenta di fare per influenzare gli eventi e il corso della Storia è continuamente disturbato dagli imprevisti che fanno andare le cose diversamente da come si vuole che vadano. L’agire umano appare come un gioco permanente, un’esitazione incessante, un continuo adattarsi all’avanzare erratico delle cose. Il controllo sui fatti è alquanto approssimativo, contrariamente a ciò che la Storia, così come ce la rappresentiamo o come ce la raccontano, vuol farci credere. Certo questo controllo, pur approssimativo, resta una leva per gestire il destino comune. Solo che, ahimè, esistono altri fattori all’avanzare erratico della Storia: l’incompetenza, la stupidità, gli interessi e gli egoismi immensi di coloro che dirigono da millenni il divenire della specie e hanno contribuito alla lenta rovina del mondo. Quel che chiamiamo Storia è in definitiva solo un grande racconto che serve a mettere ordine nell’incoerenza del passato, a cancellarne asperità e incoerenze, dando l’impressione che l’umanità sia sempre andata dove voleva andare con coerenza e logica, e quindi che il presente non sia completamente consegnato all’incertezza e al non-senso.

 

* Un estratto da Beyrouth 2000

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