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Scuola (o delle emozioni per imparare)

In una parola Il progetto delll’istituto comprensivo Rita Levi Montalcini di Salerno fatto di «percorsi educativi per l’affermazione di un cultura di genere con piena cittadinanza delle differenze e contro ogni forma di violenza e discriminazione»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 8 maggio 2018

Dunque viviamo in un mondo in cui si rimanda l’assegnazione del premio Nobel perché l’(ex) autorevole commissione che deve scegliere è squassata da una storia di molestie sessuali maschili.

D’altra parte il capo dell’Impero Americano è un signore che ammette di aver pagato (molto bene) una signora che vende sesso perché tacesse sui loro rapporti. Prima l’aveva negato, ora dice che è lei a dire bugie… La probabilità che sia invece lui a mentire due volte è piuttosto alta.

Il credito all’autorità maschile si assottiglia sempre di più, e da più parti ci si chiede in che modo si possa reagire. Si ascoltano ragionevoli considerazioni sulla persistenza di una cultura machista, e sulla necessità, oltre che di condannare e reprimere le violenze degli uomini, di prevenirle con l’educazione e la cultura.

Ma se si volge lo sguardo alla scuola, il luogo più deputato a questo ruolo, ci prende lo sconforto. I media ci parlano di ragazzi superbulli che minacciano insegnanti e maltrattano compagne e compagni. Di professori demotivati. Di genitori bulli anche loro, sempre pronti a difendere i pargoli qualunque bravata compiano.

Per fortuna la scuola non è solo questo. E chissà, magari non è nemmeno prevalentemente questo… i media forse dovrebbero raccontarcela un po’meglio, nel male, ma anche nel bene.

Sabato ero a Salerno, all’istituto comprensivo (dalle elementari alle medie, come si diceva una volta) Rita Levi Montalcini, dove da quattro anni è in corso un progetto elaborato da una associazione di donne, In Movimento, fatto di «percorsi educativi per l’affermazione di un cultura di genere con piena cittadinanza delle differenze e contro ogni forma di violenza e discriminazione». Dal primo anno con gli alunni – e maestra e genitori – di una quinta elementare il «percorso educativo» si è allargato a altre classi delle medie. In un incontro intitolato «La scuola che cambia il mondo», decine di ragazzi e ragazze hanno messo in scena uno spettacolo reinventando, recitando e suonando, parole e storie di uno dei svariati testi su cui hanno lavorato. Un libro (Mary Jane, tu lo hai visto il mare? Augh edizioni) scritto da una insegnante, Patrizia D’Errico, nel quale – tra utopie e distopie che parlano del molto che non va nel nostro mondo, agiscono personaggi fiabeschi, si evoca la forza del desiderio e il bisogno che persone appassionate si impegnino per combattere ignoranza, ottusità del potere, stupidità delle norme meramente repressive.

Il clima, in un’aula magna strapiena, era festoso e civile. Alcuni genitori hanno partecipato allo spettacolo, e allo scambio di opinioni che è poi seguito con l’autrice del libro, la preside Carla Romano, e Raffaellina Marinucci, animatrice del progetto.

Si è discusso, anche, di come conciliare desiderio e libertà con la cura delle relazioni e il principio di autorità senza il quale la scuola non funziona. Patrizia D’Errico è intervenuta con la voce di una maestra protagonista dei suoi libri: «Programmiamo, costruiamo itinerari, fissiamo obiettivi, spezzettiamo la conoscenza in piccoli ordinati bocconi da assumere nel giusto ordine. Io non ho mai imparato niente così. Quel poco che so, l’ho scoperto a cavallo di un’emozione, di una fame bulimica e a volte disordinata di comprendere, di entrare dentro le mie curiosità correndo a rotta di collo. Dopo, ho ordinato, classificato, concettualizzato».

Scuola, dal greco scholè, significa in origine ozio, riposo. Un tempo in cui con la riflessione e lo studio non dovrebbero mancare i sentimenti e le forme più alte del gioco. O no?

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