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Schifano, a pieni polmoni con le carte

Schifano, a pieni polmoni con le carte

A Milano, Galleria Marconi, "Mario Schifano TUTTO nelle carte...", a cura di Alberto Salvadori Un medium leggero, aperto al balenare di sempre nuove idee visive: la ricerca di pittura-felicità nei primi anni sessanta, la stagione dei monocromi. Fu nel 1963 che Giorgio Marconi intercettò a Roma Mario Schifano: gli fece un contratto e lo spedì a New York a ricomperare cinquanta carte...

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 15 ottobre 2023
Mario Schifano e Giorgio Marconi nello studio della galleria Marconi a Milano, 1964-’65, fotografia di Ugo Mulas

Che meravigliosi titoli sapeva inventarsi Mario Schifano! All’ultimo piano della mostra alla Fondazione Marconi di Milano, su una piccola carta con un’immagine di uno squarcio di cielo da sotto in su, scrive Allucinatevi. A poca distanza due opere dominate dalla tenera irruzione di un verde acquerello sono state battezzate Ossigeno ossigeno. Titoli che risuonano come dichiarazioni pubbliche di amore per la pittura, ebrezza di libertà e di felicità.
Il contenuto intrinseco di quei titoli spiega quanto era accaduto qualche anno prima tra l’artista e Ileana Sonnabend, la grande gallerista moglie di Leo Castelli. Sonnabend, che adorava Schifano, lo aveva messo sotto contratto, pretendendo però una coerenza molto rigida rispetto al monocromo. «Monocromi, nothing else», era stato l’ultimatum di Ileana: una gabbia nella quale Schifano non aveva intenzione di farsi rinchiudere. Per far capire le sue intenzioni non era neanche andato all’inaugurazione della sua mostra parigina organizzata dalla gallerista. Come disse Maurizio Calvesi, «fu un atto di coraggio, ma anche una pazzia, perché lui così rinunciò al mercato internazionale».
Chiuso con Sonnabend, Calvesi gli aveva aperto un rapporto con la galleria Odissya di Federico Quadrani di Roma. È lì che nel 1963 Giorgio Marconi aveva visto per la prima volta le opere di Schifano: «Erano opere incredibilmente nuove, rispecchiavano in modo originale e sempre mutevole un ritratto della vita nella società italiana. Era l’artista-cronista sensibile di quei momenti». Marconi non solo lo aveva messo sotto contratto, ma lo aveva mandato a New York per ricomperare le sue opere: tra queste c’erano una cinquantina di carte.
Proprio il lavoro di Schifano su carta di quei primi anni sessanta è il filo conduttore della mostra curata da Alberto Salvadori in corso alla Fondazione Marconi: Mario Schifano TUTTO nelle carte…, fino al 4 novembre. «Schifano è empirico e sperimentale, è affamato del mondo che gli si palesa davanti, trasforma tutto in pittura pura», scrive il curatore nel foglio di sala che accompagna i visitatori. In questa prospettiva la carta è il medium più immediato per dar sfogo a quella sua fame di mondo e per dar sfogo al suo connaturale empirismo. Un medium leggero, sempre alla portata, aperto ad accogliere il balenare di nuove idee visive. C’è anche un momento in cui la carta occupa uno spazio quasi totalizzante. È quello relativo alla stagione dei monocromi. In mostra ne è esposto uno, di sontuosa qualità, Santa Tecla. Ha un formato in teoria fuori dimensioni per una carta, 150 x 150 centimetri, ma invece di carta, o meglio di carte, è la sua anima.
Schifano aveva messo a punto una tecnica grazie alla quale di fatto neutralizzava la porosità della tela coprendola con fogli di carta da spolvero precedentemente immersi in una miscela di Vinavil e acqua. In questo modo rendeva la superficie pittorica pressoché impermeabile al pigmento che vi avrebbe steso sopra. Come scrive Giorgia Gastaldon nel suo recente studio dedicato agli inizi di Schifano, «il colore poteva così galleggiare ancor più facilmente e liberamente, preservando ai massimi livelli tutte quelle potenzialità cercate dagli artisti negli smalti scelti, in primis, per la loro brillantezza, quasi riflettente, e la saturazione estrema delle tinte selezionate». Il risultato, paradossalmente, è antitetico all’idea programmatica dei monocromi. La superficie pittorica è infatti viva, irregolare, pulsante, impregnata di cose e di mondo; il quadro privato della gioia degli oggetti rappresentati, si propone lui stesso come oggetto da toccare, anzi da godere con gli occhi. Invece di andare verso un silenzio della pittura, Schifano, in modo determinato e impertinente, propone una meravigliosa esperienza di ridondanza della pittura.
Non ho idea di dove prenda origine il titolo di quel quadro. Tecla è «una parola, osserviamo per inciso, simile a tela – una santificazione dell’invenzione rinascimentale del quadro», hanno ipotizzato lo stesso Salvadori e Riccardo Venturi in Qualcos’altro. Mario Schifano e il monocromo. Si può aggiungere un’altra suggestione: a Santa Tecla era dedicata la «basilica major» milanese abbattuta per lasciar posto al Duomo ma i cui resti in quegli anni erano riemersi grazie agli scavi della metropolitana. Nella stessa sala un disegno a carboncino è dedicato a un cartello segnaletico che indica la direzione per Milano. Infatti Marconi, dopo aver stipulato un contratto in esclusiva con lui, aveva cercato di portare Schifano nel capoluogo lombardo, anche per strapparlo alle mille distrazioni capitoline. Gli aveva affittato una casa-studio in via Amedei, ma troppa era la nostalgia per Roma: Schifano se ne stava continuamente al telefono, con il costo delle interurbane naturalmente a carico del gallerista. «Era come una belva in gabbia», ricordava Marconi nella biografia polifonica di Schifano scritta da Luca Ronchi. L’esilio sarebbe durato solo quattro mesi…
I grandi spazi del primo piano della Fondazione si completano con la serie delle esplorazioni urbane, i «particolari di paesaggio» e i «particolari di esterni», come indicano, quasi con provocatorio pudore, alcuni dei titoli. Schifano mette fuori la testa, esplicita la sua scelta in direzione di «un’arte che si svolge e rivolge all’oggetto, alla realtà», in forza di «una nuova coscienza attenta» che si mette «in relazione alla città, allo spazio umano, alla vita, alle passioni» (Salvadori). Sono opere da cui germina, a metà anni sessanta, la straordinaria stagione dei «paesaggi anemici».
Salendo agli altri due piani della Fondazione, si è chiamati a vivere un’esperienza di «lievitazione pittorica». Il primo step è costituito da una doppia contaminazione con la celebre immagine del gruppo dei futuristi e insieme con lo spirito tutto politico del 1968. Schifano «cerca famiglia» e lo fa a modo suo, senza alcun timore di cadere in contraddizioni ideologiche. Il Futurismo rivisitato è un omaggio seriale pieno di simpatia e gratitudine per quel gruppo di pionieri, a cui si aggiunge il tocco delicato di una carta dedicata a Carrà, nell’immediatezza della sua morte nel 1966 (Carrà è morto ieri, il titolo). Compagni compagni sono invece carte dipinte «a raffica», che in qualche caso s’accendono con il dilagare di un rosso pieno di passione, fluido e libero, mai perentorio, come potevano apparire i rossi di Guttuso o di Turcato. Schifano segue l’onda della rivolta, però, con l’agilità del puma che Parise aveva visto in lui, coglie subito l’illusorietà di tanti obiettivi: nel titolo di una carta, che per le dimensioni potrebbe fare da stendardo per manifestazioni, lascia spazio a un dubbio sottile: Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno alla società (1968).
L’esperienza di «lievitazione» si completa al terzo piano, con una piccola apoteosi della pittura schifaniana. La sequenza è di quelle da riempire di felicità gli occhi, grazie all’impatto con un doppio Tuttestelle e con un Particolare di oasi in formato verticale, slanciatissimo. Nello spazio più grande le carte di Schifano si offrono come finestre spalancate dove la pittura entra come un soffio d’aria inatteso: c’è realmente una finestra, determinatamente matissiana, ritagliata su un cielo leggero. Poi ecco Ossigeno ossigeno e Allucinatevi, due stupendi appunti visivi, improvvisazioni compositive regolate da una segreta grazia. Due carte che arrivano a noi come un invito a respirare a pieni polmoni, sino all’inebriamento. Come sottolinea Salvadori l’arte di Schifano è «un sistema aperto, volontario e partecipativo», dove «tutto è a disposizione e va condiviso, scelto».

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