Se la musica, da sempre protagonista del Festival dei due mondi, ha avuto un battesimo letteralmente «oceanico» che ha portato alla soppressione causa diluvio del concertone di apertura, il teatro è arrivato qualche giorno dopo ma ha trovato subito una immagine forte da affermare come protagonista. Sarto per signora è un titolo famoso, un vaudeville che da più di un secolo rende il suo autore George Feydeau una garanzia di successo per ogni teatro del mondo.
Ad interpretarlo a Spoleto una compagnia di giovanissimi, allievi della Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico che hanno appena concluso la propria formazione. Ma il nome di maggior richiamo è di colui che la messinscena ha firmato: Carlo Cecchi, in assoluto un artista tra i più importanti (forse il massimo) sui nostri palcoscenici. Il risultato è clamoroso: in poco più di un’ora si ride a crepapelle ma con amara intelligenza (cosa che sempre più raramente avviene nelle nostre platee disseminate di «nuovi comici») di quel balletto infernale di «tradimenti» borghesi.

LA PARIGI di quella restaurazione dopo la Comune, appare impegnata giorno e notte, in casa e fuori, al tradimento coniugale, o almeno ai suoi preparativi. Mariti, mogli, suocere, servitori o anche semplici presenze accessorie, casuali o meno, sono tutti presi in una ronde a tempo pieno, un instancabile giro di ruoli, di convenzioni e di furberie che rendono quasi impossibile il consumare quell’oggetto di sfrenato desiderio. Feydeau, in maniera geniale, fa muovere il meccanismo che viene rincorso, desiderato e mai mandato a buon fine, tanto da apparire la maggiore attività civile di quei personaggi. Che però fanno ridere quasi fossero consapevoli di esser votati alla infelicità. Passando tutti, e mai indenni, da equivoci a travestimenti, da sbalzi sociali di pura apparenza a poco rassicuranti ruoli pubblici.

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Carlo Cecchi tra farsa e poesia nel labirinto eduardianoQuesto schema diabolico si mostra perfetto per valorizzare le doti e le acquisizioni di una nuova generazione di attori, che infatti ad ogni rappresentazione mietono un personale successo. Il cui merito va ovviamente innanzitutto a Cecchi, qui solo regista, che aveva mostrato di recente i miracoli possibili di un teatro sinceramente comico e insieme impietosamente tragico, assumendo su di sé una superba interpretazione di Sik Sik artefice magico. Che ora passa, con una sorta di investitura da vero Sarto per signora, a una generazione che pare felice di assumere quella lezione. Tutti bravi e divertiti gli interpreti, immedesimati nei ruoli (probabilmente per questo motivo risaltano particolarmente irresistibili, nella bravura di tutti, il cameriere e la suocera).
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In direzione esattamente opposta sembra marciare invece l’operazione che, testo dopo testo, va compiendo su Cechov Leonardo Lidi. Dopo un recente Gabbiano, presenta ora Zio Vanja. Ma l’operazione sui celebri testi cechoviani rischia di provocare un effetto opposto a quello originario della loro nascita. Il taglio di molte battute (o il loro adeguamento a stilemi linguistici di oggi) non rende più simpatici o vicini a noi quei personaggi. Né tanto meno simpatici, con i trucchi e gli eccessi del loro porgersi. Invece che divertire (o tanto meno commuoverci) rischiano di comunicare allo spettatore piuttosto la noia che lo spleen originario. È un pericolo vero, per quanto consapevole per un artista che ha saputo in questi anni darci altre, più illuminanti visioni.