La vita è ciò che ti accade mentre fai altri progetti, dice Leonardo Lidi citando John Lennon. E conviene tenerlo a mente davanti al Gabbiano di Anton Cechov che il regista ha presentato l’estate scorsa a Spoleto e propone come tratto iniziale di una promessa trilogia cechoviana. Vasto programma che non dispiace, tornare ogni tanto allo scrittore russo è un fatto salutare. Ma intanto c’è da salutare l’emergere di una nuova e interessante generazione registica che sta sui trent’anni o poco più. Lidi si era rivelato alla Biennale veneziana con una riscrittura «da camera» degli Spettri ibseniani ma già è passato attraverso prove più impegnative. E il dato anagrafico conta, vuol dire una inevitabile innocenza che ignora per esempio, per restare al Gabbiano, le prove di Massimo Castri o Lev Dodin o Nekrosius o ancora la seduttiva seduta di Vasil’ev, fino all’«altro» Gabbiano di Ronconi, per fare solo i primi esempi che vengono naturalmente alla mente. E mica gliene si può fare una colpa.

LA SCENA di Nicolas Bovey precipita la pièce di Cechov in un vuoto assoluto. Attorno le pareti nude del teatro, sui cui lati caleranno però uno dopo l’altro dei sipari neri a circoscrivere lo spazio. Solo una panchina in primo piano, come il relitto di un teatro che fu, ciò che resta di una rappresentazione lasciata andare alla deriva. O forse l’unico elemento scenico funzionale alla messa in prova del testo, qual è in fondo Il gabbiano presentato da Lidi. Il rifiuto della rappresentazione diventa un provarsi con il testo. Play with Cechov, avrebbe detto Kantor tanto tempo fa. Sul fondo stanno allineate una fila di sedie dove siedono gli attori quando non sono di scena. Poi anche la panchina sparirà, mentre scende progressivamente il traliccio che porta le luci, fino ad abbattersi sul palco nell’ambiguo finale.
Sparisce così il palchetto allestito per la recita del dramma di Treplev, con la vista che si perde verso l’oltre di un lago che, rovesciando la prospettiva in una sorta di controcampo, il regista dichiaratamente identifica con la platea (in questo caso quella del teatro Storchi, la produzione è degli Stabili di Umbria, Emilia Romagna e Torino). Cosa vuol dire questo ributtare la palla nell’altro campo? Forse quell’utopia di un teatro diverso è morta, e bisogna rassegnarsi. Sparita la possibilità di un altrove, lo spazio vuoto non è più l’emblema delle «forme nuove» invocate dal giovane aspirante drammaturgo in contrapposizione alla madre, la grande attrice Arkadina che si paragona alla Duse addirittura, come paradigma di due visioni contrapposte dell’arte.
Simbolismo contro realismo, semplifica un po’ Lidi. Per dire che se questo è il Tema, con la sua brava maiuscola, meglio tenersi lontano dalla trappola. Perché poi arriva la vita, appunto. Vuol dire badare al senso pratico del teatro e agli attori che ne sono i portatori sani, scegliere la semplicità dei sentimenti primari. Non è un caso forse se l’empatia del regista sembra rivolta verso la coppia più anziana piuttosto che i due giovani protagonisti, l’amletico e nevrotico oltre che infelice Konstantin di Christian La Rosa e l’incolore Nina di Giuliana Vigogna che però si anima di un ingenuo bovarismo culturale davanti alle attenzioni dello scrittore famoso. Ecco invece duellare in gran complicità la Arkadina di Francesca Mazza e lo scatenato Trigorin di Massimiliano Speziani, strepitosi (gli altri interpreti sono Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Orietta Notari e Tino Rossi).

UNO STACCO musicale segna la cesura fra gli atti. Sul mare luccica l’astro d’argento. E la barcarola napoletana innesca un ballo collettivo, che è quasi un corrispettivo meno inamidato di quello del Gattopardo (più Visconti che Tomasi di Lampedusa però). Un mondo sta morendo e non sappiamo bene cosa prenderà il suo posto.