Per Sarah Vaughan, la grande cantante jazz, questo 2024 riserva ben tre importanti anniversari: è il 27 marzo 1924 quando nasce a Newark (New Jersey) da una famiglia della classe operaia afroamericana; è il 5 dicembre 1944 allorché incide il suo primo disco I’ll Wait and Pray a nome dell’orchestra di Billy Eckstine; ed è il 18 dicembre 1954 quando lei registra per la EmArcy il long playing Sarah Vaughan, ritenuto il suo primo grande capolavoro a 33 giri (e per molti critici ancora oggi l’album seminale).

La Vaughan appartiene ormai da tempo – già molto prima della scomparsa avvenuta il 3 aprile 1990 a Hidden Hills – alla storia e alla leggenda del jazz moderno, della classic song, della black music; e anche con l’Italia la cantante intrattiene stretti rapporti nel corso degli anni, nonostante un pizzico di gossip a sfavore, che la pongono al centro dell’attenzione mediatica in due casi diversamente eclatanti: da un lato nell’edizione 1976 di Umbria Jazz un ragazzo le si avvicina tutto nudo sul palco mentre sta cantando, facendola così arrabbiare da non voler proseguire il concerto; dall’altro lato viene scelta per cantare le poesie di papa Giovanni Paolo II musicate da Francy Boland, Tito Fontana, Sante Palumbo, e poi inserite nell’album Sings Karol Wojtyla Let it Live (1984).

Ma c’è di più e forse di meglio: nel 1961 a un trentottenne etnomusicologo italiano spetta il merito di scrivere il primo libro su di lei, all’epoca famosa da circa un decennio; è Roberto Leydi a firmare Sarah Vaughan nella collana «Kings of Jazz» di Casa Ricordi: un’iniziativa lodevole che si ferma a soli 12 titoli – Armstrong, Basie, Beiderbecke, Ellington, Gillespie, Goodman, Oliver, Parker, Bessie Smith, Waller, Young – riservati a già celebratissimi maestri (non a caso i volumetti sono spesso traduzioni da grandi critici americani) tranne per lei appunto, Sarah, la più giovane, ma anche la meno blasonata rispetto all’imperatrice del blues (Bessie, appunto, inserita nella lista, non a caso) e alle rivali Billie Holiday morta da due anni e a Ella Fitzgerald apprezzata a livello popolare da un pubblico trasversalmente composito.

AL BIRDLAND
Perché proprio Sarah Vaughan tra i «reali»? Tutto nasce da una sera del 1960 quando Leydi, in compagnia di un musicista di cui non svela il nome, al Birdland di New York assiste a un concerto della «Divina», come inizia ad essere chiamata tra i jazzofili, oltre il nickname di Sassy. Mentre canta, allo studioso viene in mente poi un paragone, riportato nel libro: «La Fitzgerald da una parte, la Holiday dall’altro. Sarah Vaughan realizza davvero questa sintesi: l’ingenuità fanciullesca di Ella e la disperata malinconia di Billie. Nella Vaughan l’amarezza e la disperazione di Billie si sono aggiunte a una naturale, spontanea semplicità. Quella semplicità senza ombre e senza sottintesi che è la virtù più viva di Ella».

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Leydi insomma già intuisce perfettamente le caratteristiche di una vocalist che mantiene intatto il proprio imprinting canoro per il resto di una carriera lunghissima, costellata altresì da numerose divagazioni verso la popular music, senza peraltro mai perdere di vista l’essenzialità e la purezza del proprio canto e dell’accompagnamento jazzistico (dal trio all’orchestra ritmosinfonica), come Sarah esterna nell’abbondante discografia composta ufficialmente da 48 album in studio, 10 live e 35 raccolte (ufficialmente realizzata tra il 1950 e il 1987), mentre in precedenza e in parallelo si contano ben 89 singoli e 3 promozionali.

Tornando invece ai tre anniversari è importante ricordare anzitutto il luogo di nascita: Newark è una città industriale di mezzo milione di abitanti, distante solo venti chilometri in linea d’aria dall’Empire State Building. E forse la vicinanza con la Grande Mela e l’offerta di eventi ricreativi e culturali fa sì che tra il 1923 e il 1973 nascano nel capoluogo del New Jersey molte personalità del jazz dal bebop (James Moody) all’hard bop (Woody Shaw, Wayne Shorter, Larrry Young) fino all’avanguardia (Amiri Baraka, Marc Ribot, Stefon Harris), benché il contributo maggiore riguardi il canto nelle varie espressioni pop (Frankie Valli, Connie Francis), soul (Whitney Houston), disco (Gloria Gaynor), rap (Fugees) e ovviamente jazz con Andy Bey e soprattutto con Betty Carter, stilisticamente la più vicina alla Vaughan medesima.

Per quanto concerne invece la prima registrazione, avviene a New York per la DeLuxe, unica cantata fra le 20 tracce incise dal citato jazzsinger Eckstine, qui nei panni di big band leader di un nuovo ensemble che eredita la maggior parte dei solisti dalla disciolta orchestra di Earl Hines, il quale, a causa dello sciopero dei discografici statunitensi tra il 1943 e il 1944, non lascia purtroppo alcuna traccia fonografica in un momento decisivo di transizione dallo swing al bebop; dunque Eckstine dirige alcuni giovani talenti come Dizzy Gillespie, Dexter Gordon, Gene Ammons, Tommy Potter, Art Blakey e una Sassy che sull’original di George Treadwell e Jerry Valentine offre un’intonazione piacevole, ma non ancora ben definita: «(…) È un’incisione – commenta il grande storico del jazz Barry Ulanov – molto gradevole da ascoltare ma non è certo in grado di darci la misura di quelle che già allora erano, nelle esecuzioni in teatro e nei club, le qualità musicali della Vaughan».

LA MATURITÀ
Dove invece la «divina» raggiunge la maturità artistica è il secondo lp a proprio nome, senza titolo: interpreta nove standard a partire dalla ballad di George Shearing Lullaby of Birdland che sarà il leitmotiv con cui verrà identificata per il resto della carriera, mentre altri sette inediti usciranno dagli archivi della label solo per la ristampa della session completa su cd nel 2005. Diretto da Ernie Wilkins, agisce un sestetto di professionisti navigati (Paul Quinichette, Jimmy Jones, Joe Benjamin) e di giovani come Herbie Mann (flauto), Roy Haynes (batteria) e soprattutto Clifford Brown (tromba) destinati a brillanti escalation soliste: in particolare Brown, grazie al sodalizio con Max Roach, diverrà nei soli due anni successivi (prima che un incidente d’auto gli stronchi la vita soli 26 anni) un referente fondamentale sia per la nascita dell’hard bop sia per lo sviluppo della tromba jazz sulla linea hot di Louis Armstrong, Roy Eldridge, Dizzy Gillespie, Fats Navarro.

Vista la notorietà e la mitologia post-mortem, la casa discografica riedita subito l’album affiancando il nome di Clifford a quello di Sarah in copertina (modificata anche nel design); tuttavia, a livello artistico e performativo, la posizione di Brown resta subordinata al canto e dunque paritetica al resto della front-line e della sezione ritmica, ovverosia dell’intero gruppo accompagnatore.

Insomma, oltre ad assolo e controcanto di ottimo livello da parte dei tre fiati, in Sarah Vaughan with Clifford Brown resta il vocalismo di Sassy a emergere in un lavoro difficilmente etichettabile, come del resto accade per tutta la musica della cantante stessa. Partita dallo swing, Vaughan risulta senza dubbio vicina all’estetica bop, ma attraverso sfumature eterogenee che nel suo jazz richiamano persino correnti più abbordabili quali il mainstream e il cool; in sintonia, poi, con le mode più o meno trendy, Sarah incide addirittura qualche singolo di rock’n’roll a metà Fifties e in seguito mantiene uno stretto legame con la pop music autoriale interpretando via via numerose hit di songwriter e rockstar, arrivando persino a omaggiare Lennon-McCartney in Songs of Beatles (1981) e nell’ultimo lavoro Brazilian Romance (1987) a confrontarsi con il tropicalismo in compagnia di Milton Nascimento.

FUORI I DISCHI
Sarah Vaughan
(con George Treadwell & His All Stars; Columbia, 1950)
In the Land of Hi-Fi
(EmArcy, 1955)
Sings George Gershwin
(con Hal Mooney & His Orchestra; Mercury, 1958)
No Count Sarah
(con la Count Basie Orchestra; Mercury, 1959)
Sarah Plus 2
(con Barney Kessel e Joe Comfort Roulette, 1962)
Sassy Swings the Tivoli
(Mercury, 1963)
The New Scene
(con Luchi de Jesus e Bob James; Mercury, 1966)
Sarah Waughan with Michel Legrand
(Mainstream 1972)
Sarah Vaughan with the Jimmy Rowles Quintet
(Mainstream, 1974)
Gershwin Live!
(con Michael Tilson Thomas e Los Angeles Philharmonic; Columbia, 1982)