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Sangue senza valore

Sangue senza valoreLa protesta dei palestinesi del villaggio di Yafia, a est di Nazareth, dopo l’omicidio di cinque persone l’8 giugno scorso – Afp/Ahmad Gharabli

Cento morti Scioperi, manifestazioni e proteste dei palestinesi in Israele: Stato assente di fronte all'ondata di omicidi della criminalità organizzata araba

Pubblicato più di un anno faEdizione del 14 giugno 2023
Michele GiorgioGERUSALEMME

Quando Shafik Kabha, cantante per matrimoni, fu assassinato a Umm el Fahem nell’autunno del 2013 – si era rifiutato di esibirsi alle nozze del figlio di un criminale – la vita di Bilal Yousef ebbe una svolta. «Shafik era un caro amico e una persona buona che non aveva mai fatto male a una mosca. Non riuscivo a crederci. Capii che non potevo restare a guardare», racconta Yousef, oggi regista di documentari. La morte assurda di Kabha lo spinse a dedicare la sua attenzione alla spirale di violenza che non abbandona, anzi si aggrava, i centri abitati arabi in Israele. Circa 400 omicidi dal 2019 al dicembre 2022. Quest’anno sono già 99. La scorsa settimana cinque persone, tra cui un ragazzo, sono state abbattute da raffiche di armi automatiche in un autolavaggio di Yafat Nassrah, un paesone allo porte di Nazareth, lasciando senza fiato la popolazione di tutta la zona. Un regolamento di conti in piena regola e di stile mafioso. Quel giorno è stato assassinato anche un abitante di Kufr Qassem. Quello successivo, è stato accoltellato a morte un beduino nel Neghev. E c’è stato un femminicidio, di una 18enne, Saryeh Ahmed, nel villaggio druso di Yarka.

A questo bagno di sangue Yusef Bilal un anno fa ha dedicato il film «Living in the Shadow of Death». Non contiene solo testimonianze di famiglie che hanno visto uccidere un genitore, un fratello o una sorella. Piuttosto trasmette i sentimenti dell’intera comunità araba e di come non si senta al sicuro di fronte a sparatorie e omicidi senza sosta. Che spesso sceglie in silenzio per non affrontare guai. Lo stesso Bilal è uno dei protagonisti. Decide di lasciare la sua cittadina, Daburiyya e prova a trasferirsi nel villaggio ebraico di Shimsheet che crede sia più sicuro. Le sue speranze però vanno deluse quando scopre come sia difficile per un arabo essere accettato in quella comunità che pure si proclama aperta a tutti. Sarwa, che abita a una ventina di chilometri da Haifa, afferma di comprendere il disagio e il disorientamento di Bilal Yusef. «Non avrei mai immaginato quanto potesse essere facile uccidere qualcuno nelle nostre cittadine e poi sparire – ci dice la donna – Dopo Yafat Nassrah ammetto di avere paura, abbiamo tutti paura. Perché siamo soli, lo Stato non ci protegge. C’è il Far West sotto casa e la polizia resta a guardare». Una constatazione fondata visto che alle centinaia di omicidi avvenuti in questi anni nelle comunità arabe palestinesi in Israele sono seguiti pochi arresti e processi. Contro la diffusione della criminalità organizzata e l’incapacità della polizia di combatterla, sono stati organizzati negli ultimi giorni scioperi, raduni, manifestazioni e veglie. I partecipanti hanno issato bandiere nere di lutto e scandito slogan contro il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir. «Il sangue arabo non vale di meno», «Le nostre vite contano» sono stati gli striscioni e i cartelli più diffusi.

L’ingresso in scena del crimine organizzato in Israele avviene negli anni ‘90 in particolare con l’immigrazione ebraica – circa un milione di persone – dall’ex Unione sovietica. Tra gli olim ci sono anche criminali russi e ucraini che non tardano a mettere in piedi il traffico di cocaina ed eroina e a riciclare il denaro sporco in varie attività. La partecipazione araba al crimine era a quel tempo limitata alla manovalanza. Poi è diventato più facile procurarsi pistole e mitra, provenienti da furti nelle caserme dell’esercito. Così la manovalanza araba al servizio dei «mafiosi russi» scopre che mettersi in proprio è più conveniente. Secondo quanto, in condizione di anonimato, raccontano giornalisti locali, le famiglie arabe che gestiscono gran parte delle attività illecite sono la Hariri e la Bakri che hanno ai loro ordini centinaia di uomini. A queste si sono aggiunti clan meno potenti ma altrettanto spietati. Si fanno la guerra in particolare per il traffico degli stupefacenti. Tuttavia, ci spiegano, «non va sottovalutata l’usura» tra le cause di tanti omicidi. «Per i prestiti urgenti – prosegue – non pochi arabo israeliani preferiscono non rivolgersi alle banche e vanno dagli strozzini legati ai criminali. Coloro che non sono in grado di restituire le somme con gli interessi pattuiti e nei tempi stabiliti rischiano di finire male e non solo loro». I criminali minacciano i loro parenti e qualche volta si vendicano trasversalmente uccidendo un congiunto del debitore che si nasconde o fugge all’estero per salvarsi.

«La mappa delle organizzazioni criminali e delle loro attività è nota, per questo l’assenza dell’azione di contrasto della polizia è inspiegabile. L’unica ragione che vedo è quella etnica, siamo arabi e possiamo ammazzarci tra di noi», ci dice Abed, un reporter specializzato in cronaca nera, facendo riferimento alle dichiarazioni di un paio di mesi fa del commissario capo di polizia Kobi Shabtai. «Non c’è niente da fare. Si uccidono a vicenda. Questa è la loro natura. Questa è la mentalità degli arabi», disse Shabtai durante una conversazione con il ministro Itamar Ben Gvir. La polizia, secondo Abed, fa poco per contrastare la criminalità nelle aree arabe perché dei clan ne fanno parte parecchi informatori dell’intelligence incaricati di sorvegliare le attività politiche degli arabo israeliani. «Non possono essere dimenticati – conclude il giornalista – i palestinesi collaborazionisti (di Israele), circa un migliaio che negli anni ‘90, dopo gli Accordi di Oslo, vennero trasferiti in Israele con le loro famiglie. «La seconda generazione di quei collaborazionisti – conclude – boicottata dalla minoranza araba per quel passato scabroso, è facile preda delle organizzazioni criminali».

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