«Le forze armate turche hanno bisogno di pochi giorni per essere quasi del tutto pronte». Le dichiarazioni rilasciate alla Reuters da un funzionario anonimo dell’esercito di Ankara provano a dare consistenza alle ripetute minacce di Erdogan: l’invasione via terra della Siria del nord-est è vicina.

Quanto? «Non troppo. Dipende da quando il presidente darà l’ordine. La preparazione è completata. Ora è una decisione politica», chiosa il funzionario. Una decisione politica che solo in parte Ankara può rivendicare. I due pesi massimi, Russia e Stati uniti, controllori dei cieli siriani, devono acconsentire.

Al momento – è probabile – il via libera lo hanno dato solo ai bombardamenti aerei. Che non sono poi così innocui visto che nel mirino sono finite pure basi militari in Rojava utilizzate da russi e statunitensi.

I primi, ieri, hanno sospeso i pattugliamenti al confine turco-siriano, iniziati nell’ottobre 2019 dopo l’occupazione di Gire Spi e Serekaniye e di quel corridoio di terre lungo un centinaio di chilometri tuttora sotto il giogo dei bracci armati (e amministrativi) della Turchia: i gruppi jihadisti parte del cosiddetto Esercito nazionale siriano, creatura di Erdogan.

I SECONDI, presenti sul campo con circa 900 effettivi – il ritiro sbandierato da Trump nel 2019 è rimasto un annuncio, comunque potente: il semaforo verde all’occupazione turca – si sono fatti vedere nei pressi di Hasakah, al confine tra Siria, Turchia e Iraq. Pattugliamenti simbolici, messaggi palesi.

Sulla stampa turca si parla di un incontro, a Qamishlo, tra Russia, Usa e Pyd (il partito curdo dell’Unione democratica): Mosca e Washington avrebbero proposto il ritiro dal confine turco (30 km in profondità) per impedire l’invasione. Al posto delle unità curde, le truppe russe e americane.

Lampante però è anche la posizione della popolazione siriana. Con 63 caduti – tra civili, combattenti delle Forze democratiche siriane (Sdf) e soldati di Damasco – le comunità protestano. Domenica erano in migliaia a marciare a Qamishlo contro l’operazione turca. Che, in attesa di quel che Erdogan ordinerà, prosegue dal cielo con raid continui e a tappeto. In nove giorni hanno colpito infrastrutture civili e centri cittadini. Servono a terrorizzare, a convincere la gente ad allontanarsi da sé, in cambio della vita.

PER ORA NESSUNA FUGA di massa, dice al manifesto Salih Muslim, co-presidente del Pyd (Partito dell’unione democratica): «La popolazione civile continua a vivere nelle proprie case, ad andare al lavoro, a coltivare le terre. Sanno che di solito il nemico turco prende di mira le infrastrutture pubbliche come ospedali, stazioni di benzina, centrali elettriche. Ovviamente prendono precauzioni, sono state bombardate anche delle case, ma non ci sono ondate migratorie come in passato. Sui civili pesano le esperienze di Afrin e Serekaniye: i rifugiati non sono mai tornati. Non vogliono lasciare le loro case, se ce ne sarà bisogno si difenderanno da soli e a fianco delle Forze democratiche siriane».

Da parte sua l’Amministrazione autonoma, figlia della rivoluzione del 2012, tenta di alleviare le conseguenze dell’operazione turca, dice Muslim, «continuando a portare avanti i propri compiti: servizi sanitari, distribuzione degli aiuti, logistica. Si prende cura della popolazione».

Nel mirino, più di tutte, c’è la città di Kobane, con tutto il peso – insopportabile per Erdogan – del proprio significato simbolico: la resistenza impossibile all’Isis che si è fatta reale, mentre i turchi chiudevano le frontiere ai profughi e li aprivano agli islamisti. Ieri, secondo le agenzie siriane, il governo di Damasco ha inviato almeno 20 carri armati a Kobane, presidio contro un’invasione terrestre. O tentativo di frenarla ricordando a Erdogan il graduale disgelo tra Siria e Turchia, di cui ormai sui media nazionali non si fa che parlare.

SULLO SFONDO del dialogo ancora informe ma sempre più probabile, c’è l’Iran, alleato di ferro di Damasco e rivale silenzioso della Turchia. È Teheran a tenere aperto l’altro fronte, quello in Bashur, il Kurdistan in Iraq, con bombardamenti via via più frequenti contro le postazioni delle opposizioni curdo-iraniane che hanno trovato rifugio nel paese vicino: «Credo ci sia un coordinamento tra Turchia e Iran – aggiunge Muslim – Stanno bombardando zone molto vicine tra loro. Eppure in Iran è in corso una rivoluzione popolare contro il governo iraniano che non riguarda solo i curdi. Riguarda i curdi, i beluci, gli azeri, i persiani».