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Saccheggio rococò da Algarotti a Guido Rossi

Saccheggio rococò da Algarotti a Guido RossiGiovanni Antonio Guardi, "Crasso saccheggia il tempio di Gerusalemme", olio su tela, cm. 120 x 145, collezione Gian Enzo Sperone

Il museo circolare di Gian Enzo Sperone: Gian Antonio Guardi «A parte Tiepolo, ero passato illeso fra maestri e maestrini veneziani... Di bellezza insidiosa, questo "Romani nel tempio di Gerusalemme" di Guardi fu commissionato, forse, dall’illuminista veneto. Altro motivo per comprarlo, lo spessore dell’ultimo proprietario: il giurista milanese»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 20 agosto 2023
Guido Rossi in un dipinto di Mario Schifano (part.), 1997

Come tutti i collezionisti, vittime incolpevoli del demone dell’arte, ho talvolta promesso a me stesso di non cedere più a nuovi innamoramenti o anche solo infatuazioni per altre opere d’arte in cui mi sarei imbattuto. La parola d’ordine (ma quale ordine?) era di conseguenza: evitare di soggiacere all’idea del possesso della bellezza piuttosto che alla sola contemplazione e condivisione. Banalmente, questo sottintendeva anche il proposito di smettere di vivere in un crescendo di ansia legata a sempre nuove difficoltà finanziarie.
Contemplando invece quest’opera di Gian Antonio Guardi, Crasso e i Romani saccheggiano il Tempio di Gerusalemme, sono rimasto illuminato dalla bellezza insidiosa del Rococò veneziano; prima di allora, a parte la scossa del genio di Tiepolo, ero passato indenne tra maestri e maestrini di quella cultura.
Detto fatto, ho ricominciato a trasgredire, mentendo a me stesso, senza nemmeno che aumentasse troppo la disistima. Questa è comunque una faccenda complessa che non è il caso di affrontare in questo contesto, e rappresenta il pane quotidiano di un collezionista (con tendenze all’ammassamento seriale) che giura di non entrare per un bel po’ in una galleria o in una fiera d’arte come fosse un casinò per i giocatori, salvo poi saltare da «un bel po’ » a «pochissimo».
Nel quinto decennio del Settecento questo quadro era stato apparentemente commissionato (lo dicono alcune fonti) da Francesco Algarotti a Giambattista Pittoni: esiste solo un bozzetto nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia ma con differenze di composizione. Verrebbe da pensare che il dipinto non sia mai stato portato a termine da Pittoni, o comunque se ne sono perse le tracce.
Algarotti, celebre saggista, poeta, filosofo di spirito illuminista, era all’epoca in una posizione di prestigio in quanto amico del grande Federico II di Prussia, che per almeno dieci anni lo circondò di premure e di avances. In contatto anche con Voltaire, che avrebbe egualmente sperimentato le attenzioni (impegnative) del re Federico, fu soprannominato dal filosofo «caro cigno di Padova» in quanto bel poeta e di bell’aspetto. Quello dei nomignoli elargiti graziosamente ai suoi amici o rivali era un vezzo di Voltaire: emerge dall’epistolario. Per l’allora ambasciatore di Luigi XV di Francia a Venezia, cardinale de Bernis, sospetto di costumi licenziosi (lo ha scritto anche Casanova) nonché poeta dilettante, aveva coniato il leggiadro titolo di «Babet la bouquetière».
Algarotti, dicevo, aveva commissionato questi Romani nel Tempio di Gerusalemme in veste di consigliere del Re Augusto III di Sassonia intorno al 1740-’45. L’ipotesi che la commissione venisse dirottata da Pittoni a Guardi suggerisce che quest’ultimo fosse meno pretenzioso, ciò che la dice lunga sulla sua vita grama: per sopravvivere e pagare i conti della bottega faceva copie di quadri altrui, pur non resistendo alla voglia di apportare leggere modifiche.
Tutte queste belle notizie storicamente accertate riguardano un momento irripetibile della cultura veneziana ed europea (ma ogni momento della storia è tuttavia irripetibile). Notizie che sono fonte sempre fresca per interrogarci su questioni ricorrenti e irrisolte, aprendo su racconti infiniti che possono narrare la storia dell’arte senza mai arrivare, però, al quadro completo.
Da bambino andavo talvolta a giocare a carte da un mio lontano cugino, sacerdote e teologo, famoso e apprezzato in paese per essere in grado di far durare il tempo di una normale messa tra i sei e i sette minuti in meno di chiunque altro. Spesso tentando (vanamente) di interrompere il gioco, piazzavo al teologo, cioè dottore nella scienza di Dio, la domanda cruciale: «ma il mistero della Trinità?…». La risposta, «è impossibile rispondere a un mistero», ricorda il problema dell’arte, gaudioso, glorioso e sfuggente, che è il racconto di una sfilza di piccoli grandi problemi (grandi e piccole delizie) che non diventa mai un romanzo unitario, dunque un mistero.
In definitiva, perché questo quadro è per me avvincente? Nonostante la composizione piuttosto sbilanciata, approda tuttavia a creare un ritmo inebriante attraverso torsioni, scivolamenti. È evidente che le pennellate non si sa dove cominciano e nemmeno dove finiscono. Sta di fatto che solo a Venezia in quel periodo sono nati i maestri del tocca-e-fuggi, in un certo senso non interessati a chiudere, bloccare la composizione per contenerla. Parliamo di Piazzetta, Pittoni, i Guardi, Tiepolo – ma è pur vero che duecento anni prima Tintoretto aveva già aperto questo filone di pittura. Non molto diversamente da quanto narrava Bruce Chatwin ne Le vie dei canti, canti che erravano fra le tribù aborigene australiane senza poter mai completare una storia che fosse totale, inclusiva di tutte le loro memorie parziali. Infatti ogni tribù conosceva solo una porzione dei canti e quella tramandava, incessantemente «errante» per il continente.
Ad accrescere il fascino di un’opera passata nei secoli di mano in mano, mani che però non conosco, vorrei ricordare che l’ultima persona a cui è appartenuto, dalla fine degli anni ottanta, l’incantevole dipinto di Gian Antonio Guardi, è stato un uomo di grande spessore, Guido Rossi, milanese, giurista, politico, nonché promotore della legislazione anti-trust nei cinque anni in cui è stato senatore della Repubblica.
Senza esagerare, credo di dover dire che anche quest’ultima appartenenza ha avuto la sua parte nella mia decisione di acquisire l’opera: si sa che Guido Rossi aveva collezionato quadri di sicura qualità e peso culturale.

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