Le stanze di Rossana

«Neppure sapevo parlare con le donne. Un uomo è in gran parte quel che fa, dice, pensa di essere, anche se per nessun uomo d’un certo spessore l’identità fila così liscia. Ma una donna? Parli sempre con qualcosa che le è stato fatto fare, pensare, dire, da pressioni dolci o acerbe; oppure la trovi ammutolita nella zona opaca di distanza che ne prende».
Così è successo che dal novembre del 1978 al febbraio del 1979 Rossana Rossanda, da «combattente un po’ spelacchiata», ha parlato da Radiotre tutti i martedì alle dieci, «non senza affanno e con molte incertezze». Il tema proposto, la donna e la politica, «potevo metterlo come volevo. – dice – E si poteva mettere in molti modi: chi sono e che fanno le donne politiche, in Italia o altrove, ieri o oggi; oppure come la politica ha visto le donne; oppure non le ha viste».

Inizia così, il 20 settembre del 2021 a un anno dalla sua scomparsa e dalla comparsa del Covid-19, questo viaggio per l’Italia in compagnia di Rossana e del suo libro Le Altre (pubblicato nel 1979, poi nell’1987 e, nel 2021, da manifestolibri). Città dopo città, incontro dopo incontro, Le Altre ha mostrato di essere ancora quello «straordinario deposito di domande e di compiti da svolgere» come ricorda qui Lidia Campagnano, sua compagna dell’impresa allora come oggi.

Questa pratica che ci trasmette quanto la vita sia «scandita dai fatti altrui» in cui essere donna rimane «un dolore aggiunto, un particolare modo di patire o di fuggire», ci interroga in quanto donne se abbiamo voglia di confrontarci con i suoi affondi, incalzanti e senza sconti.

In questo nostro corale percorso appena all’inizio, già navigano altre parole delle politiche femministe mutuabili da tutte e tutti: patriarcato, dipendenza, capitale, organizzazione, desiderio, femminilizzazione, rivoluzione, relazione.

Lei, comunista ortodossa, osserva le amiche femministe con il dubbio che non ci sia tempo di cambiare il rapporto con noi stesse. Ci lascerà, infatti, sempre convinta che nessuna/o cambia davvero senza prima cambiare il mondo.

Perché delle tre grandi parole che la rivoluzione francese ha gridato, Uguaglianza e Libertà resistono poste in dialettica tra loro ma cade fraternità, un valore dei movimenti nascenti (quando la gente si riconosce e si mette insieme) cui lei non sovrappone la sorellanza femminista (tutto ciò che ci accomuna ci rende uguali) perché gridare «Fratello non sparare! Non vedi che sei come noi? Che siamo come te?» non disegna un’ingiustizia da riparare ma «una rivoluzione che comincia e che identifica i suoi portatori». (p. 101)
Rimane Uguaglianza quindi – in quanto fattore della lotta di classe– la parola che Rossana tiene sempre con sé in questo attraversamento de Le Altre senza rinunciarci mai, pur assumendo la Libertà di Antigone, la ribellione alla legge del padre, del tiranno, come potenziale rivoluzionario di un femminismo cui rimprovera, tuttavia, di rimanere troppo rinchiuso in se stesso. Il legame di Rossanda con il femminismo non nasce con le «sorelle», dunque, ma con le donne in quanto «esse conoscono un livello di oppressione specifica dentro al sistema generale di oppressione».

Assumere la responsabilità della sua eredità, oggi, significa io credo non accomiatarsi dalla sua voce che si era fatta ormai flebile, ma sostenere il suo sguardo di sfida sempre acuto e vivo.

Simona Bonsignori

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Le parole della Rivoluzione francese
«Non ci può essere uguaglianza senza libertà», osserva Rossanda rileggendo le due parole fondamentali della Rivoluzione francese. Sebbene uguaglianza sia la sua prescelta, il discorso procede seguendo gli inestricabili intrecci dell’una con l’altra. Nelle sue argomentazioni ritroviamo un’autorevolezza e una consapevolezza che si accompagnano a un sentire e a un «accogliere» che la rendono sempre partecipe delle sorti dell’umanità nella sua generalità e, al contempo, capace di farsi interprete dell’agire di ciascuno/a. È questa postura che le permette di «pensare in grande», di veicolare un significato della politica come «forma dei rapporti fra uomini e donne, che sia assieme generalizzabile e gelosa delle specificità», delle differenze plurali, della differenza. Un’accezione della politica come dimensione della trasformazione, della creatività e della liberazione, come ambito in cui si realizza la possibilità dell’agire-insieme (scriveva Arendt in Vita activa).

È Rossanda stessa che chiede a Le Altre: «come costruire una dimensione politica senza distruggere la diversità della persona, come fondare sulla diversità della persona un principio di validità che vada oltre di essa, e cioè sia politica?». Tante voci di donne e del femminismo hanno offerto risposte a questa domanda riflettendo sul rapporto tra uguaglianza e libertà, tra uguaglianza e differenza. Libertà e uguaglianza hanno continuato nel tempo a conservare una grande carica emotiva e passionale, forse perché ogni volta gli accadimenti del mondo ci costringono a ripensarle e riarticolarle, forse perché ogni generazione si trova a farci i conti tenendo conto anche delle eredità del passato, forse perché la proposizione dell’égaliberté contiene una dimensione rivoluzionaria.
Libertà, afferma Rossanda, sono tante cose, e proprio la libertà è stata la più inflazionata e svuotata del suo contenuto più radicale e relazionale, piegata al credo neoliberale.

Libertà è rifiuto dell’oppressione, essa porta in sé «un’immagine di lotta e un carico di sofferenza», che proviene dagli oppressi, da quanti confliggono in suo nome. E d’altronde l’anelito alla libertà è qualcosa di incessante: è «come se non si cessasse mai di non essere liberi», in quanto non si tratta solo di liberarsi da qualcosa imposto dall’esterno, ma si possono continuamente vivere condizioni di costrizione e oppressione all’interno del proprio ordine sociale. Centrale è il riferimento alla figura di Antigone, colei che è più vicina «a quella parte inalienabile dell’essere e della persona che ha la sua radice nella vita stessa». Antigone agisce in nome di ciò che non è scritto e che nessuno può cancellare: restituire umanità e compostezza al corpo del fratello lacerato nella polvere.

È questa la differenza di Antigone davanti alla legge oppressiva, è l’irriducibilità e insieme la pietas nei confronti della creatura umana. Ma il punto più caldo della riflessione di Rossanda è quello che allude al suo rapporto con la libertà femminista: la libertà di essere. Qui si possono cogliere passaggi molto significativi del suo rapporto con Le Altre, del suo modo di intendere la relazione tra l’universale e la valorizzazione delle singolarità. Da un lato Rossanda afferma di essersi sempre sforzata di non essere diversa, perché diversa voleva dire privilegiata, separata dagli altri, dalle sorti comuni. Dall’altro, coglie che la libertà di essere implica un ritrovamento di se stesse, una trasformazione del mondo che è soprattutto trasformazione del sé, del proprio rapporto con le altre e gli altri, con la realtà. È questa una libertà di donna che non cerca più nell’uomo la prova della sua esistenza e del suo valore e che abbisogna, osserva Rossanda, di un momento di scissione, di separazione, di ricerca per poter poi tornare libere nel mondo, risignificandolo.

L’uguaglianza è allora «uguale diritto ad essere se stessi», non comporta omologazione né si limita a piano astratto e formale. Rossanda fa suo lo smascheramento marxiano calandolo però nella realtà vissuta in primis dalle donne, a partire da quell’oppressione femminile che in modi diversi continua a persistere nel patriarcato. La sua uguaglianza è quella che si esprime nelle lotte volte a «spezzare la gerarchia dei poteri», portatrici di un’istanza eversiva che è il motore del cambiamento. Le donne soprattutto sono coloro che vivono le contraddizioni di una uguaglianza solo formale, che vivono «più profondamente degli uomini» l’esperienza della diseguaglianza «vera al di là dei principi enunciati».
È per questo, conclude, che il grido delle donne non può che essere quello della rivolta e che l’anelito all’uguaglianza e alla libertà è inesauribile. Si tratta di una posta in gioco sempre aperta, di un percorso sempre incompiuto e realizzabile che interpella tutte e tutti, nel presente e nel futuro.

Chiara Giorgi

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Carteggio tra Lea Melandri e «la donna nascosta»
Frammenti di dialogo sul femminismo tra Lea Melandri e Rossana Rossanda
05/05/2006

Lea: Tu dici spesso, scherzosamente, che non sai se sei una donna, un uomo o un ufo.
Rossana: Non scherzo, protesto. Sembra che io non sia mai quel che dovrei essere. Ma non c’è dubbio: sono nata femmina e sono donna nel mio tempo.
Lea: Penso che ogni donna possa dire lo stesso di sé…
Rossana: No. Quante donna si è? La femminilità è stata costruita sopra di noi da una rigorosa divisione sessuale dei ruoli, che aveva un suo senso per il patriarcato, e che è stata introietta da maschi e femmine. C’è perfino nel femminismo una propensione a cogliere del genere femminile l’inclinazione alla fantasia, alla malinconia, al sogno d’amore anche se ci dilania, al palpitare del corpo, e a trovare opaco tutto ciò da cui siamo state escluse – il pensiero oggettivato (la manifesta ragione) e le istituzioni, quel che chiamiamo «politica». Non è questa la mia esperienza, per cui, diciamo la verità, le mie amiche femministe mi aggregano alla solita emancipata che vorrebbe essere un uomo, e quelle che, come te, mi vogliono bene, cercano di mettere in luce con affettuosa attenzione in quel che scrivo la «donna nascosta». Non fare un salto se osservo che gli uomini fanno lo stesso con me, in direzione opposta.

Lea: È vero, una parte del femminismo ha creduto di poter rivalutare aspetti tradizionali del «femminile», come il sentimento, l’attenzione ai rapporti personali, l’inclinazione al dono, alla cura dell’altro, in una chiave nuova, positiva e quindi capovolta rispetto al passato, come se la «differenza» dell’essere donna fosse in qualche modo garantita da un dato biologico, come la maternità, o da un fondamento metafisico. Non è mai stata questa la mia posizione.

Rossana: Per me la «femminilità» non sta in natura: in natura sta la genitalità, la sessualità, mentre le sue figure sono cosa più complicata, estesa, prodotto di coscienza, terreno tormentato di civiltà. Dentro la quale è nata (con variazioni) la figura della donna prima figlia, poi sposa, poi madre, poi asessuata, oppure sfrenata, seduttiva, amante fatale, amante seccante, via via fino alla più o meno sacra prostituta e alla effimera «velina». O anche l’opposto assoluto, la disincantata sposa di dio. Sono modelli antichi ma perché subirli ancora? Perché perlopiù ci infiliamo in uno di loro? Io non ne amo nessuno, né quello severo né quello ammiccante. E non ho mai desiderato essere un uomo. Ne ho invaso il campo, questo sì, non glielo lascio.
…..
Lea: Ma aggiungevi, a proposito della identità di sesso, che era «l’intuizione di una dimensione immensa, prima da me non vista o sottovalutata».
Rossana: Non ne posso più di «identità» presunte invalicabili – di terra, di sangue, di etnia, di religione e figuriamoci se non di sesso. Diciamo soggettività di genere. Io mi sono andata convincendo che di biologico e invariabile fra maschi e femmine c’è solo la diversità dell’apparato riproduttivo: gli uomini non possono partorire, noi non possiamo spandere in loro un seme. Tutto il resto è costruzione storica a onde lunghe, e dissimmetrica perché segnata dal sopravvento d’uno dei due sessi. E, certo, profondamente introiettata. Forse perfino pattuita, se no le donne avrebbero sterminato gli uomini da un pezzo (…). Lui andava in guerra e lei restava a casa. Non è stato un bel contratto. Sfidavo la politica a tenerne conto. Sfidavo noi stesse a non starci più.

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Resistenza: essere acqua che scorre

Quando Rossanda intende parlare di Resistenza in quello straordinario deposito di domande e di compiti da svolgere che è Le Altre, è a Camilla Ravera che si rivolge: una donna, dirigente comunista di primissimo livello intellettuale e pratico, partigiana a lungo incarcerata. Ne viene un colloquio difficilmente definibile, in un’aura d’intesa che non nasce da una continuità di frequentazione, da un’amicizia permanente o quotidiana: nasce da una particolare qualità comune del loro vivere e del loro concepirsi.

Per descrivere Camilla, Rossanda ricorre a un paragone con Sibilla Aleramo che vede stagliarsi, bellissima, su un mondo che fa soltanto da sfondo al suo raccontare di sé, e poi: «le vedo accanto Camilla…e come chi non ‘fa politica’ ma fa della politica la sua vita, che è una cosa differente, è simile a un’acqua che non si ferma, corre, a volte si disperde dentro la terra, a volte fa crescere qualcosa…ma non ha tempo di raccogliersi in una superficie ferma dove mirare la propria immagine».

Le donne nella Resistenza, le donne la cui vita è politica da cima a fondo sono quell’acqua che scorre. Sono – o si vogliono – frammenti di storia. Frammenti di un arazzo grande quanto il mondo e il complesso intreccio dei suoi eventi, scriverà nella prefazione a un altro libro, il Viva Babeuf! di Gino Vermicelli. Bisogna dirlo che è quanto di più lontano ci sia dalla retorica combattentistica? Nella lotta armata clandestina (esperienza durissima, dolorosa e a tratti spietata, dirà sempre) essere acqua che scorre – appena un fruscio sulla terra – è una grande qualità; e lo è anche l’acuta sapienza dei rapporti, dei gesti comunicativi, del linguaggio del corpo. Le donne sono state, e in numero mai seriamente conteggiato, partigiane straordinarie.

E poi? Poi il ritorno a casa? O la lotta per l’emancipazione, senza tratti consapevolmente «femministi»? Davvero? Rossanda lascia aperta l’interrogazione, ce la consegna. In quell’essere «acqua che scorre» non c’è forse anche un desiderio e una libertà di essere che non dipende dalla visibilità sociale, dall’approvazione sancita con l’assegnazione di una identità fissa, di un ruolo codificato e normato e pubblicamente proclamato?
Un desiderio davvero rivoluzionario, in fondo.

Un giorno Rossanda mi ha detto che a suo parere avevamo, noi femministe, liquidato troppo in fretta e troppo distrattamente le questioni della sua generazione, i tratti specifici di quell’esperienza. Che in Le Altre – e non parla solo delle partigiane – descrive così: «endurance: è ostinata capacità di tenere, di soffrire, di non lasciarsi morire, di non lasciarsi uccidere, di resistere. Forse endurance è resistenza… Se qualcuno crede che questa sia solo una virtù passiva, provi a chiedere che ne pensassero i fascisti e i tedeschi».
Credo proprio che avesse ragione. E che sia bene tornare a scavare attorno alla fonte delle esperienze politiche femminili che ci hanno preceduto. E farne lavoro di memoria.

Lidia Campagnano

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La critica della politica per una politica diversa
Femminismo è una parola nuova che si riferisce a «un movimento nato sotto il segno della separatezza, geloso di sé, con un itinerario tormentato e tuttora in via di mutazione» (p.223).

Il confronto con le donne e con il femminismo attraversa tutte le parole della politica che Rossana ha scelto. In questo cantiere di riflessione politica, Rossanda si muove intorno a una domanda: «perché la politica non ha voluto le donne e perché le donne oggi non vogliono la politica? E se in questo doppio rifiuto non ci sia l’embrione non solo di una crisi ma di una critica della politica che diventi politica diversa». (p.15).

Tre sono i limiti maggiori che Rossanda vede nel femminismo, nodi altamente connessi tra loro. Innanzitutto questo rifiuto della politica: situarsi, come Antigone, fuori dalla polis. In questa scelta di critica radicale alle istituzioni, Rossanda vede l’eccesso di una messa in discussione della politica tutta di cui coglie anche la potenzialità trasformativa, la ricerca di libertà. Quello che la preoccupa di più è il rischio che le donne scelgano di rimanere esattamente nel luogo che è stato loro assegnato, fuori dalle mura, ai margini della politica.

In secondo luogo la priorità che il femminismo assegna al sé, all’io, alla sua ricerca, alla sua scoperta. Rossanda, infatti, vede nel tentativo delle femministe di rifondarsi come soggetti, un esercizio che richiederebbe di fermare il tempo, di dimenticarsi della storia che scorre e a volte precipita, fuori dall’io e dalla storia individuale.

Infine, nella scelta del separatismo, vede la rinuncia a riconnettere le lotte femministe con quelle degli altri movimenti. Se, infatti, la critica radicale che le femministe muovono alle forme della politica e allo stato può essere da lei compresa e, a tratti, anche apprezzata, rimane assolutamente incomprensibile e inaccettabile per Rossanda, il fatto che nel mettere davanti la ricerca e scoperta di sé, il femminismo si sottragga dallo scenario della lotta di classe. Non si tratta soltanto di una critica alla mancata volontà di un’alleanza. Rossanda, infatti, dice chiaramente «io credo che si possa vedere nel femminismo un’intuizione di riunificazione totale, propongo di tentare la sintesi tra la visione del femminismo e il movimento anticapitalista». (Ma non siamo ancora al punto di poter tentare alleanze, le risponde Manuela Fraire, p.219).

Sono critiche profonde e laceranti e, tuttavia, Rossanda non solleva questi dubbi per prendere le distanze ma al contrario per accorciarle, assumendo fino in fondo la necessità di discutere della critica che il femminismo muove alla politica, della trasformazione in atto che esso rappresenta. Il dialogo con Le Altre, infatti, è per Rossanda l’occasione non solo di un «arricchimento» della sua rivoluzione, ma di «una svolta»: «Quel che le donne mi rispondevano mi obbligava a cambiare itinerario» (p.42).

Si tratta, infatti, anche dell’inizio di un percorso personale, di un interrogare se stessa, che continuerà a portare avanti negli anni e con altri testi, cercando il suo modo di vivere la sfida del femminismo senza rinunciare a un’idea di politica che tenga insieme «il profondo e la storia», come racconta in uno dei saggi raccolti in (Questo corpo che mi abita), curato e scritto in dialogo con Lea Melandri.

Anastasia Barone, Sandra Burchi