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Rosa da Tivoli, il serraglio barocco dello scapestrato

Rosa da Tivoli, il serraglio barocco dello scapestratoPhilipp Peter Roos, detto Rosa da Tivoli, "Due caproni a riposo e una pecora", part., asta Grisebach, Berlino, novembre 2019

Animal House, Seicento romano: le capre di Rosa da Tivoli Fra gli artisti nordici scesi in Italia, il tedesco Philipp Peter Roos. Predilesse i ricchissimi velli caprini, che realizzava con tocco risoluto e focoso. Fu genero malsopportato del pittore «eroico» Giacinto Brandi. Si ritirò in una casa a Tivoli, che trasformò in «un’arca di Noè»

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 11 agosto 2024

L’arca di Noè. Così, secondo l’olandese Arnold Houbraken, che pubblicò nel 1718 una raccolta di biografie dei pittori nordici, era chiamata dai suoi compagni della Schildersbent – l’irriverente e scanzonata congrega dei pittori oltramontani di stanza a Roma – la casa che il tedesco Philipp Peter Roos (1657-1706) mise su a Tivoli, in quella campagna romana che, già resa celebre dai paesaggisti della generazione precedente (Claude Lorrain in primis), sarebbe divenuta nel Settecento un luogo quasi mitico, un’Arcadia forse mai esistita davvero se non proprio in quei dipinti e nei ricordi di viaggio dei grandtouristi, che già guardavano l’Italia attraverso quelle tele, in un cortocircuito virtuoso.
Goethe, appena passate le Alpi, scriveva: «tutto quello che si vede e si muove qua e là, fa pensare ai quadri prediletti… gli splendidi bovi che vanno e vengono dal mercato alla casa, gli asinelli curvi sotto il carico – tutto questo sembra un quadro vivo e parlante di Heinrich Roos». Quell’Heinrich (1631-’85), padre di Philipp, si era già specializzato in paesaggi italiani idilliaci, con rovine classiche e buoi in serena e pacifica convivenza, senza mai però essersi recato nel Belpaese; il figlio, invece, nel 1677 partì alla volta di Roma, e si innamorò proprio di quella campagna in cui Goethe poi si sarebbe fatto ritrarre da Tischbein, contribuendo anzi in misura cospicua alla creazione del culto di quella terra incantata di cui oggi non rimangono che pochi lacerti aggrediti da un’antropizzazione non certo armoniosa.
Se nei dipinti del padre gli animali non giocavano sempre il ruolo di protagonisti, Philipp – volgendo pian piano le spalle alle antichità romane – diventò un maestro di quel genere, che contava già dei rappresentanti illustri al di là delle Alpi (l’olandese Paul Potter o il fiammingo Pieter Boel, specialista per l’arazzeria Gobelins e alla corte di Luigi XIV, per il quale ritrasse gli animali della menagerie di Versailles), ma che in Italia – se si esclude il caso un po’ speciale di Genova, dove persino un maestro di prima classe come il Grechetto gli strizzava l’occhio – non era certo ancora affermato.
Il radicato culto, tutto umanistico, per la pittura di figura, di storia, condiviso da intendenti e collezionisti di rango, ancora più forte a Roma che non a Napoli o a Venezia, dovette subito spingere ai margini della scena un artista come Roos. Egli non solo non poteva conquistarsi uno spazio pubblico in città, dove le commissioni di maggiore prestigio erano le pale d’altare (ci rimane del Tedesco un disegno con una Crocifissione, al Getty, che forse tradisce un’ambizione di quel tipo, rimasta frustrata), ma non riuscì neanche a lavorare, nelle vesti di specialista, per i collezionisti più facoltosi del tempo – che pure riservarono una certa attenzione ai generi minori –, da Lorenzo Onofrio Colonna a Niccolò Maria Pallavicini; né Pietro Ottoboni, poco più avanti, ne cercò sul mercato le tele.
Lo sguardo altezzoso che la cultura ufficiale italiana riservava a Roos emerge da un passo di Lione Pascoli (1730), compreso nella Vita di Giacinto Brandi, nella cui bottega egli era entrato al suo arrivo in città: «lasciato poi il dipignere eroico, si diede a’ boscherecci, e agli animali». E Brandi, pittore eroico, fece tutto il possibile per impedire il matrimonio della figlia Maria Isabella con quello scapestrato, arrivando a chiuderla in convento; ma Philipp, proprio come un altro Filippo di due secoli prima (Lippi, ancor più spavaldo), riuscì alla fine a ottenere la mano dell’amata.
La storia romanzesca di quel difficile corteggiamento tenne impegnate le penne di Houbraken e Pascoli, e anche Nicola Pio (1724), suo unico vero biografo italiano, non ci racconta molto di più di ‘Monsù Rosa’, e anzi sembrerebbe che quell’autore cercasse di assimilare il Tedesco a una figura di pittore più facilmente digeribile per la cultura italiana: «si elesse per habitatione una casa in Tivoli, luogho copioso di rovine e cadute d’acqua, di macigni e di bellissime vedute molto a proposito al suo fare». Ma a Rosa in realtà interessavano poco «rovine e cadute d’acqua», e a Tivoli egli dipinse soprattutto capre, pecore e semmai bovini, non tanto, come riportava Pio – sempre ansioso di nobilitare almeno un po’ quel pittore troppo selvatico – «i cavalli, che ritrahendo dal vero, li ricercava nelle più superbe razze e maggiori stalle de principali signori di Roma».
Tutte le fonti riportano quanto fosse prolifico Rosa, soprannominato dai colleghi olandesi Mercurio per la sua velocità esecutiva. Egli dipingeva soprattutto quadri di facile commerciabilità, lavorando per il mercante Pellegrino Peri, e riuscendo almeno a ricevere commissioni, nei primi anni ottanta, dal cardinale Benedetto Pamphilj – notoriamente, però, poco munifico – e soprattutto, alla metà degli anni novanta, da un altro irregolare come lui, quell’‘eretico’ Pietro Gabrielli per il quale dipinse, tra l’altro, due tele grandiose popolate solo da pastori e armenti, riuscendo quasi a sollevare il suo genere minore al rango di quello dei quadri con soggetti mitologici e allegorici che il suocero Brandi eseguiva per il salone principale dello stesso Palazzo Taverna.
Italiano/Oltramontano; Brandi/Roos; genere eroico/animalier: tutta la carriera di Rosa si legge attraverso queste contrapposizioni, che si traducevano anche in un diverso status sociale. Pio ci dice che il pittore «per la sua virtù e velocità dell’operare, guadagnava di molti denari a segno che accasatosi con una figlia del cavalier Giacinto Brandi, con poca sodisfazione del di lei padre, e per mostrare la sua grandezza e li suoi guadagni, mise carrozza e trattavasi da cavaliere come il suo suocero». Forse davvero Rosa cercò la rivalsa nei confronti di Brandi, pittore di grandissimo successo, e fece il passo più lungo della gamba: nel 1687 chiedeva un prestito al suo agente, Peri, che alla mancata restituzione della somma, nel 1689 fece pignorare i beni del pittore, tra i quali erano inaspettati oggetti preziosi: «dui cortelli con manico d’argento, un anello con tre diamanti, un orologio d’argento dorato, tre portiere di nobiltà gialla e rossa». Poco dopo quella bancarotta, Rosa si trasferì a Tivoli, mettendo su una sua piccola, modesta menagerie di pecore e capre, i soggetti delle tele che Gabrielli, quando voleva «spender poco», gli commissionava.
Ancora oggi Rosa è un pittore più celebre che davvero conosciuto e studiato: molte sono le tele che sotto il suo nome – spesso a ragione – passano sul mercato; poche quelle attestate in collezioni di primo piano, o approdate nei maggiori musei. Eppure da morto egli divenne pian piano una figura sempre più celebre, e l’Autoritratto di Felice Boselli entrato agli Uffizi nel 1712, alla fine del secolo passava come opera di Roos padre, e poi di Roos figlio. Forse solo nell’Ottocento, quando la campagna romana divenne un mito, monsù Rosa si trasformò definitivamente in Rosa da Tivoli: si sanciva così il radicamento del pittore in quel paradiso bucolico, e il ruolo che egli aveva avuto a costruirlo nella memoria collettiva.
Ancora alla metà del Settecento la bellissima tela dell’Accademia di San Luca giungeva in quell’istituzione, col lascito Fabio Rosa, sotto il nome di ‘monsù Rosa’ (Rosa, Rosa… e il pensiero, qui, corre allora a una terza Rosa, la Bonheur, grandissima animalista). Quel pastore venne dipinto da Philipp o dal più esperto figurista Brandi? Certo sono le capre dal ricchissimo vello, pienamente barocco, a rimanere impresse nella memoria, e a confermare quanto scriveva Pio, secondo cui Rosa era «di gran bravura nel suo pennello, che per la sua velocità nell’operare e toccar le sue cose con tanta franchezza e risolutione, gli fu posto il cognome di fulmine». Nessuna eco di quell’analisi scientifica, lincea, che aveva caratterizzato le opere di un precursore degli animalisti italiani, l’Antonio Cinatti attivo per Cassiano dal Pozzo, ma al contrario una pennella corposa e briosa, una vivace e sensuale adesione al dato naturale.

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