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Ironico ma melanconico, sotto il segno di Walser

Ironico ma melanconico, sotto il segno di WalserMarkus Raetz, "Madame et Monsieur", 2009, collezione privata, foto di Alexander Jaqueme

A Berna, Kunstmuseum, "Markus Raetz. Oui non non si no yes no", a cura di Stephan Kunz Maestro dell’effimero, Raetz si formò, ventenne, nella Berna sperimentale di Harald Szeemann. Le sue «cose di poco conto» nell’aereo candore di «tutto ciò che fa ombra»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 8 ottobre 2023
Markus Raetz nel suo studio di Berna, Laubeggstrasse, 2011, foto di Alexander Jaqueme

Tra sculture aeree come soffiate da una cannuccia, tra gli svolazzi di lamiere che prendono pian piano, girandovi attorno, la forma di una pipa, evidente omaggio a Magritte, o che da un uomo con cappello, sempre cogliendo il punto esatto, si trasformano in un coniglio (e come non pensare a Beuys?); o ancora, con lo sguardo a fissare in alto quelle quattro o cinque foglie lanceolate che accennano ai profili di due putti; tra rimandi di specchi dai quali si profila magicamente il torso di una Venere, e ancora in mezzo a specchi che trasformano le parole di bronzo nel loro opposto – ceci/cela, todo/nada, si/no… – c’è molta, molta gente che sorride veramente allietata. Ed è un piacere osservarla, tanto da convincersi che allora l’arte serve ancora a qualcosa; perlomeno a consolarci, per rifarci a un nostro poeta.
Markus Raetz Oui non non si no yes no, a cura di Stephan Kunz, fino al 25 febbraio: questa mostra, negli ampi spazi di fine Ottocento, un po’ solenni e un po’ pomposi, del Kunstmuseum di Berna, era stata proprio pensata a suo tempo dall’artista, poco prima della sua improvvisa scomparsa; spazi nei quali soprattutto immaginava fluttuare la sua ultima, inedita creazione Wolke (Nuvole), un mobile di una decina di metri, sistema sofisticatissimo da osservare seduti – annotava Raetz – da due prospettive: una dalla quale i fili di ferro si intrecciano dando forma a nuvole; l’altra per cui gli stessi fili si trasformano in oggetti ben distinguibili: pipe, libri, scatole, scarpette, un cappello, il volto di Mickey Mouse o nel profilo di un viso. C’è da rimanere a bocca aperta, col naso all’insù per molto tempo, camminando intorno alla sala. Raetz aveva visto bene, perché è proprio il contrasto con l’architettura del luogo ad accentuare la grazia delle sue opere, ed è evidente qui il fatto che un certo genere di opera necessita degli spazi giusti; non «neutri», al contrario.
Markus Raetz appartiene a una generazione fortunata. Nasce nei paraggi di Berna nel ’41 e, ventenne, ha modo di frequentare Harald Szeemann, Jean-Christophe Ammann e tanti artisti della loro cerchia, affamati di nuove esperienze artistiche. Una situazione di apertura che gli consente in poco tempo di essere chiamato giovanissimo per un soggiorno di lavoro allo Stedelijk Museum di Amsterdam e lì di concludere l’esperienza addirittura con una personale; lo stesso poco dopo alla Deutscher Akademischer Austauschdienst di Berlino. Comincerà presto, dai primi anni settanta, a conoscere una crescente notorietà, fino a diventare un artista celebrato e venerato in Svizzera, soprattutto a Berna, dove salvo un breve periodo di viaggi (nel Ticino dove risiede Meret Oppenheim, in Marocco, in Spagna, in Egitto, in Tunisia) e regolari soggiorni in Provenza rimarrà per tutta la vita. Una personalità coinvolta in quel mondo di avanguardie al quale attribuiamo, o abbiamo attribuito, troppi -ismi, senza i dovuti distinguo, senza a volte renderci conto – non prendendoci il tempo per approfondirne le singole storie – dell’unicità della loro creazione isolandola per quel che si può dal contesto.
Percorrendo le sale, il candore, il leggero tono ironico, la presenza costante di quelle «cose di poco conto» fanno d’istinto pensare allo scrittore di primo Novecento Robert Walser, un’altra singolare, anzi, particolarissima figura legata a questa regione svizzera. E puntuale, nella penultima sala arriva la conferma, con quel ritratto ormai famoso di Walser preso quasi di profilo, stampato dall’artista su un cartone formato da tante sottili, regolari pieghe, che producono un effetto simile alle lamelle di una tenda, in modo che si veda ma non distintamente, o meglio si percepisca l’impronta lasciata nella memoria. Reto Sorg, direttore del Robert Walser Zentrum di Berna, mi spiega l’interesse che già a partire dai primi anni sessanta l’opera di Walser suscitava in Raetz, e la sua idea rimasta incompiuta di dedicargli un’opera.
Se si osservano con attenzione le decine di fotografie dedicate al suo atelier in apertura di catalogo, si potrà notare sopra un tavolo un cartoncino aperto a metà con la fotografia di Walser, in piedi, pronto a partire per una delle sue lunghissime passeggiate nella campagna svizzera, mentre sul ripiano appena sotto si intravvede lo Shandy di Laurence Sterne, livre chevet di Raetz, come ci informa Didier Semin, autore di un testo nel catalogo curato da Stephan Kunz e Nina Zimmer. Catalogo che in verità non è un catalogo (ma inserire almeno l’elenco delle opere non sarebbe stato un male!), composto in gran parte da fotografie scattate nell’atelier dell’artista, una Orangerie abbandonata concessagli dopo molte trattative dal Comune di Berna nel 1990. Atelier – questo il titolo del libro pubblicato in parallelo alla mostra – non vuole essere altro, con il suo folto numero di foto, che un ritratto dell’artista, siccome in quei luminosissimi spazi, assiepati di sculture penzolanti o di pietre-gemme levigate e intarsiate, Raetz si trovava a meraviglia, costruiva con ingegno, perizia e pazienza estreme le sue opere e poteva persino le più vaste installarle e verificarle prima di esporle. C’è un documentario di Iwan Schumacher nel quale passo dopo passo si segue la creazione elaboratissima di una delle sculture più note di Raetz: Kiki de Montparnasse, tratta dalla foto della danzatrice scattata da Man Ray. Due cilindri irregolarissimi, sinuosi, costruiti sovrapponendo decine e decine di anelli di legno; poi collocati uno a pochi centimetri dall’altro e fatti infine ruotare. Difficile da spiegare a parole, bisogna vedere coi propri occhi: nel vuoto tra i due cilindri in movimento, come in sogno, appare la sensuale silhouette di Kiki che danza. Questa retrospettiva di Berna è la prima grande mostra dedicata interamente all’opera tridimensionale e ai mobiles di Raetz («tutto ciò che fa ombra», precisava) e preannuncia l’imminente uscita del catalogo ragionato sul quale si sta da anni lavorando all’Istituto d’Arte Svizzero di Zurigo.
«In ogni caso, il disegno è sempre la prima tappa, anche quando preparo le sculture. Ciò che si vede passa sempre dal disegno». Il disegno è alla base, sostanza prima della sua opera scultorea. I suoi taccuini, che danno avvio alla mostra, sono depositi di idee, zeppi di schizzi eseguiti alla maniera di un fumettista, dai quali prendono poi vita le sculture; quelle della prima fase, al pianterreno del Museo, in cui l’opera si svela da un punto preciso d’osservazione, e quelle collocate al piano superiore, i già citati mobiles in filo di ferro, tra cui la Chambre de lecture, una serie di lunghi fili di ferro modellati in profili di viso e sospesi lungo una parete, in cui è il loro ineffabile moto perpetuo a trasformare, a far apparire e svanire oggetto o figura.
«Sottile, poetico e ludico», scrive Nina Zimmer, e il pensiero va immediatamente a Fernseh (Televisione), il microscopico ometto in bronzo che dall’alto guarda nel binocolo l’orizzonte marino dipinto in grande dimensione a forma di cannocchiale a qualche metro di distanza. Ironia certo, ma essa si accompagna a un suono di fondo malinconico, perché tutto nasce e in un attimo svanisce. Ne discuto con Reto Sorg nel Centro Robert Walser, mi racconta delle ore trascorse insieme all’artista, di un uomo discreto che sembrava osservare da lontano. Sì, malinconico – mi dice –, un maestro dell’effimero.

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