Romano e Agnelli: due Gianni per un Casalese
Il museo circolare di Gian Enzo Sperone: Defendente Ferrari «Preziosa, smaltata, questa tavola di Defendente, uno dei maestri cinquecenteschi piemontesi del marchesato dei Paleologhi, faceva parte di un polittico ricostruito, con il suo talento storico, da Gianni Romano: dieci scomparti, di cui due non rintracciati; gli altri otto (fra cui il mio) appartenevano a Gianni Agnelli»
Il museo circolare di Gian Enzo Sperone: Defendente Ferrari «Preziosa, smaltata, questa tavola di Defendente, uno dei maestri cinquecenteschi piemontesi del marchesato dei Paleologhi, faceva parte di un polittico ricostruito, con il suo talento storico, da Gianni Romano: dieci scomparti, di cui due non rintracciati; gli altri otto (fra cui il mio) appartenevano a Gianni Agnelli»
Il destino ha voluto che senza dover fare nulla di speciale (a parte apprezzare e pagare) mi occorresse di aggiungere alla mia collezione un’opera «speciale»: il San Giovanni Battista di Defendente Ferrari, parte di un polittico del 1530 circa (tra sette anni compirà cinquecento anni!).
L’opera in dieci tavole fu smembrata nei secoli e otto tavole furono individuate e localizzate da Gianni Romano nel 1970. I marchesi Paleologhi, che sin dal 1306 regnarono in una parte del Piemonte (Alba, Casale Monferrato, Chivasso, Vercelli, Asti ecc…), per poi estinguersi dopo il 1533 (anno che coincide tra l’altro con la fine del marchesato di Saluzzo), dopo il 1530 furono spazzati via dall’imperatore Carlo V di Asburgo, di cui a Roma dicono ancora oggi «maledetto lui e i suoi maledetti lanzichenecchi» per lo strazio delle trentamila vittime e dei mesi di saccheggio inflitti alla città eterna. Le terre del marchesato furono assegnate ai Gonzaga (affaccendati però in altre maggiori faccende).
Nei due secoli precedenti i marchesi Paleologhi erano riusciti a creare un polo di attrazione per artisti di grande valore: Martino Spanzotti, Pietro Grammorseo, Gaudenzio Ferrari, Defendente Ferrari, Antoine de Lohny, tanto per nominarne qualcuno. Questo livello di qualità non sarebbe più stato eguagliato in seguito.
C’era anche vissuto, prima di approdare a Roma, dove avrebbe raggiunto la fama, il vercellese Gian Antonio Bazzi, detto il Sodoma, che avrebbe poi affrescato alla Villa della Farnesina una parete completa nella camera da letto di Agostino Chigi. Là lavorava ai suoi famosi affreschi Raffaello, che lo avrebbe ritratto accanto a sé nella Scuola di Atene. Dettaglio buffo: sembra che il Bazzi, sempre frenetico con gli assistenti, ripetesse spesso in piemontese «Su anduma!» (su spicciamoci), poi storpiato in Sodoma; intanto una delle sue figlie era andata in sposa a un allievo assistente, Maestro Riccio. In seguito nel marchesato sarebbe succeduto il famoso Emanuele Filiberto di Savoia «Cabeza de hierro», che spostò la sua capitale da Chambery a Torino.
Ma dove erano finiti i grandi pittori Casalesi del Cinquecento e le loro botteghe di grande successo? Forse in una diaspora inarrestabile.
Altri prima di loro – il «saluzzese» Hans Clemer, francese di origine, e l’artista, ancora senza nome, autore dei magnifici affreschi del castello della Manta – erano spariti: i troppi spostamenti non fanno mai bene alle scuole e botteghe consolidate nel tempo, che hanno bisogno, per continuare a esistere, di una centralità locale; restando così meno influenzati dalla vasta rete esterna per successive ibridazioni, inevitabili: addio stabilità. Il Piemonte del Rinascimento sarebbe entrato in un limbo con poca luce e zero prospettive.
Eppoi, per tornare al dunque, due parole su Gianni Romano. Solo il suo talento e le sue indagini meticolose hanno permesso di ricostruire idealmente il polittico di Defendente Ferrari smembrato in dieci parti, due delle quali ancora mancanti all’appello. Sono note le sue ossessioni circa la necessità che gli studiosi debbano essere prima storici, e poi conoscitori o «forbiti delibatori di pregi solo formali». Il che implica scavi infiniti nelle biblioteche pubbliche, archivi catastali, «libri delle anime». Erano noti i suoi «sbuffi» per l’eccessivo proliferare di conoscitori-attribuzionisti («spuntano come funghi») con poche basi storiche obbiettive e solo addetti ad esercitare il loro «fiuto». Paradossalmente, diceva, bisogna perder tempo a studiare anche opere di scadente qualità nella speranza di trovare inaspettati dettagli utili alla costruzione di un quadro storico complessivo, con mappature credibili. La sua tenacia, inoltre, a sostenere che accanto alla maestà dei capolavori bisogna riscoprire la bellezza in prosa delle opere minori l’ho sempre condivisa.
Tornando al San Giovanni Battista, ancorché solo frammento di un grande polittico contiene comunque in sé tutti gli elementi che caratterizzano l’opera di Defendente Ferrari: preziosismi nella decorazione meticolosa e ancora di gusto goticheggiante (con suggestioni fiamminghe), capacità narrativa quasi miniaturistica, che non preclude abilità luministiche e cromatismi con colori smaltati di grande effetto.
Un dato curioso: il leggendario antiquario torinese, di caratura europea, Pietro Accorsi, nel 1966 acquistava dall’avvocato Giovanni Agnelli le otto tavole (inclusa la mia), per poi cederle all’ingegnere Aldo Zegna. Dove si cela la stranezza? Quando avevo la galleria a Torino vendevo esattamente nello stesso momento a Gianni Agnelli un quadro di Jasper Johns, «la mappa degli Stati Uniti», che all’epoca costava pochissimo, certamente non più del Defendente Ferrari. Ora Jasper Johns vale circa mille volte di più, ergo l’avvocato Agnelli batte il collezionista Gian Enzo Sperone per mille a zero.
In effetti il Jasper Johns è considerato dal mondo intero mille volte più bello e importante del mio Defendente. Non ci sarà qualcosa di stonato? Calma, i prezzi di mercato non corrispondono all’importanza dell’opera, ma alla sua desiderabilità del momento.
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