Un giorno dopo l’altro il tempo se ne va, cantava Luigi Tenco mentre si sfarinavano gli anni ’60 della speranza, dei fiori dentro i cannoni, di una vita più dignitosa, non avvitata solo al «lavora, consuma, crepa» di cui avrebbero cantato altri menestrelli in Italia, decenni dopo. Un giorno dopo l’altro se ne vanno anche quei cantori che hanno avuto in dono dalla sorte un talento fuori misura, riuscendo a utilizzarlo per convogliare le energie creative di tutti verso una creazione collettiva più grande. Robbie Robertson è stato uno di quei cantori che, per tiro di dadi della sorte, per convinzione, per esser stato sempre e convintamente nel cuore della corrente tumultuosa degli anni ’60 e ’70, è stato un protagonista. Non andate a cercare il suo nome nelle vette mediatiche e un po’ idolatre delle popstar che si ritrovano sulle magliette e nel gran circuito del mainstream: lì bastano e avanzano Jim Morrison e Freddie Mercury e Jimi Hendrix. Perché Robbie Robertson era una stella tutta sostanza e pochissima apparenza. E pazienza se la natura gli aveva donato quell’aspetto serio, appena corretto da un sorriso sibillino che non poteva farne un’icona di stile. Robbie Robertson era consistenza musicale quando incendiava le corde della sua chitarra con assoli urgenti ispidi, imprevedibili, i giochi di armonici piazzati a sorpresa, la voce salda. Tanto da aver fatto fortuna con un gruppo che non aveva neppure avuto bisogno di uno di quei nomi sferzanti che ti si ficcano in testa . The Band, si chiamava il suo gruppo: e dunque “il” gruppo. E tanto basti.

PER SFORNARE dischi miracolosi che, in anticipo di alcuni decenni, ripassavano senza tentazioni reazionarie e nostalgie passatiste il gran corpo della storia americana, entravano di diritto nel pantheon delle incisioni necessarie, vedi The Weight, e andavano con passo felpato ad affiancarsi e a sostenere le opere di un altro maestro, Bob Dylan. E sì, perché Bob Dylan a lungo ha voluto Robbie Robertson e la sua Band come base per spiccare alti voli. Quelli testimoniati in Planet Waves, un disco da riscoprire, in Blonde On Blonde, nel fumigante, visionario doppio ellepì che testimonia una forza mercuriale «live» mai più toccata da Dylan, Before The Flood, anno di grazia 1974. Lì c’era la sferza a elettrica sapientemente infiltrata di country, di rhythm and blues, di soul di Robbie Robertson. Mente decisiva, peraltro, nel mazzo di imprevedibili fiori di bellezza racchiusi nei misteriosi Basement Tapes di Dylan, nati durante la convalescenza di Mr. Zimmermann dopo l’incidente di moto a metà dei Sessanta. Robbie Robertson se n’è andato, a ottant’anni, e il grande circo del rock classico arrivato dal Canada e trasferito negli States (qui, la sua amica del cuore Joni Mitchell, con cui farà il viaggio in Francia da lei immortalato in Free Man in Paris, Bruce Cockburn, e via citando) perde un tassello fondamentale.

ROBBIE ROBERTSON era cocciuto e competente, e si capisce: aveva sangue indiano Mohawk nelle vene (lo aveva ben ricordato in diverse opere memorabili), sapeva andare dritto a bersaglio, con la sua musica. Era stato con gli altri il «ragazzo di bottega» del gruppo The Hawk che accompagnava Ronnie Hawkins, gran patron del rock’ n’ roll canadese. Poi era arrivata la Band, e una serie di dischi di peso specifico altissimo che segnano l’immaginario del rock come forse solo quelli dei Creedence Clearwater Revival hanno segnato: radici e futuro assieme. E come non ricordare l’amico Martin Scorsese a filmare l’addio alle scene della Band, con la bellezza maestosa di The Last Waltz, uscito nel1978. Non era però un sopravvissuto, Robbie Robertson: aveva continuato a far musica, colonne sonore, dischi belli, sfaccettati e potenti. Quelli che oggi possiamo solo riascoltare, gr