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Richard Ford, uno di noi, tenero e sarcastico

Richard Ford, uno di noi, tenero e sarcasticoDavid Park, «Bagnanti», 1956

Scrittori statunitensi Far quadrare la vita e ricomporne i frammenti in un nuovo, traballante insieme, questo il quid: «Per sempre», da Feltrinelli

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 15 settembre 2024

In uno dei molti flashback che popolano le pagine di Per sempre, ultimo romanzo di Richard Ford (Feltrinelli, ottima traduzione di Cristiana Mennella, pp. 360, € 22,00, qui l’intervista di Francesca Borrelli all’autore) il protagonista, Frank Bascombe, rievoca uno dei periodi più bui della sua vita, segnato dalla morte del figlio Ralph e dal divorzio dalla prima moglie, e si sofferma sul suo lavoro di insegnante e sull’abitudine di sottoporre alle sue classi di «piccoli Aristotele ghignanti» una serie di rompicapi: «Che cosa credete di dire quando dite di capire qualcosa?»; «Che cosa state facendo in realtà quando date un senso a qualcosa?». Agli studenti interessa ben poco rispondere a queste domande, e si limitano a fissarlo attoniti dai loro banchi. «Io però», sottolinea Bascombe, «volevo sapessero che capire o dare un senso, conoscere il significato di qualcosa consiste nel far quadrare pezzi sparsi della vita che non quadrano e poi creare un nuovo insieme con i frammenti appena ricomposti. Dare un senso alle cose è un processo inesauribile di riordino e ri-riordino. Un processo che per natura è provvisorio e che ben presto soppiantiamo con qualcosa di meglio».

Questo tentativo di far quadrare la propria vita e ricomporne i frammenti in un nuovo, traballante insieme, rappresenta la sostanza ultima di tutti i romanzi che hanno per protagonista Bascombe. Inaugurata nel 1986 con Sportswriter e proseguita, in una cadenza quasi decennale, con Il giorno dell’indipendenza (1995, vincitore del Pulitzer), lo Stato delle cose (2006), la raccolta di novelle concatenate Tutto potrebbe andare molto peggio (2014) e ora Per sempre, la serie – che regge ampiamente il paragone con la memorabile tetralogia dedicata a Coniglio, di John Updike – segue la vita di Bascombe dagli anni della prima maturità alla vecchiaia. Scrittore fallito – autore di racconti mai pubblicati nei quali tentava vanamente di imitare Cheever e Updike – e giornalista sportivo, poi agente immobiliare, tre figli di cui uno morto ancora bambino, due mogli e altrettanti divorzi, Bascombe è stato salutato dalla critica come l’incarnazione perfetta dell’everyman americano: medio in tutto, dallo stile di vita alle aspirazioni, ma segnato da inquietudini quasi esistenzialiste e dotato di un’ironia, di una capacità di autoanalisi e di una profondità di sguardo degne dell’artista che ha sognato vanamente di essere.

In Per sempre, Bascombe ha settantaquattro anni, è in pensione ma dà una mano al suo ex dipendente Mike Mahoney, tibetano che ha cambiato nome e cognome all’anagrafe per «sembrare più irlandese» e che ha aperto una piccola società che vende immobili di prestigio e ha il gustoso, improbabile nome «Sussurratori di case».

La routine di Frank viene brutalmente interrotta dalla notizia che il figlio minore, Paul, ormai quarantasettenne, è malato di Sla, e ha probabilmente pochi mesi di vita. Bascombe se ne prende carico, si trasferisce con lui in Minnesota, vicino alla stessa clinica nella quale, anni prima, si era fatto «bombardare la prostata» per curare un tumore, e organizza un viaggio a bordo di un camper che porterà lui e Paul, attraverso il Wyoming, in South Dakota, per visitare il Monte Rushmore, nel quale sono scolpiti i volti di quattro, iconici presidenti americani.

Attraverso la malattia del figlio e la difficile convivenza che ne consegue Bascombe si interroga sulla natura della felicità (cui sono dedicati il primo e l’ultimo capitolo del romanzo) e sulla morte; alterna momenti di commovente premura e battibecchi furibondi con Paul; continua a coltivare i suoi piccoli sogni, soprattutto sentimentali, tentando di rinfocolare la lunga storia d’amore incompiuta con la vecchia amica Catherine Flaherty e vivendo una buffa relazione mercenaria con la massaggiatrice vietnamita Betty; si lascia andare ai ricordi, con un’erraticità che rende Per sempre, anche formalmente, un grande romanzo sulla vecchiaia. E in ogni occasione esibisce, intatte, la tenerezza e la ferocia che rendono unico il suo sguardo su se stesso e sul mondo.

Basti pensare alla scena nella quale contempla il figlio addormentato, e ricapitola con pochi, preziosi tocchi l’intera, faticosa evoluzione del loro rapporto: «Comunque, a guardarlo, provo un’innegabile sensazione di negligenza. La mia. E di paura. Paura di non averlo mai trattato da adulto, di averlo ammansito, sottovalutato, a volte dimenticato, quasi non fosse plausibile così com’è: pingue, mezzo pelato, con le dita verrucose, poco empatico, poco propenso ad ascoltare, a volte noioso e trombone – come molti quarantasettenni. Ovviamente non sono difetti. Solo che ogni tanto penso: Com’è possibile che sia mio figlio? Molti padri vivranno questo sconcerto. Non è mica una bella cosa». O al magnifico dialogo di fronte al Monte Rushmore, nel quale Paul, entusiasta, ringrazia il padre per avergli fatto vedere qualcosa di «completamente inutile e ridicolo», e aggiunge: «Al mondo ci sono troppe poche cose fatte apposta con questa stupidità.» «Io», conclude Bascombe, «sono solo felice di credere che per una volta vediamo la stessa cosa allo stesso modo – più o meno. In effetti tutto questo è inutile, è stupido. Vederlo forse non potrà guarirlo, ma gli farà un po’ bene».

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