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Richard Ford, un buffo contesto per qualcosa di davvero terribile

Richard Ford, un buffo contesto per qualcosa  di davvero terribileRichard Ford al Wellington Hotel di Madrid, giugno 2024 (Foto di Gustavo Valiente/Europa Press via Getty Images)

Interviste letterarie Frank Bascombe, l’Everyman che il suo inventore si rifiuta di considerare tale, torna protagonista di «Per sempre», l’ultimo romanzo di Richard Ford, da Feltrinelli

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 15 settembre 2024

Frank Bascombe, l’Everyman che il suo inventore si rifiuta di considerare tale, torna protagonista di Per sempre (qui la recensione di Luca Briasco) l’ultimo romanzo di Richard Ford, da Feltrinelli (traduzione di Cristiana Mennella, pp. 360, € 22,00). Portarsi dietro un personaggio per decenni e lungo diversi romanzi comporta certamente dei vantaggi: per esempio poter contare sull’affezione del pubblico; ma anche degli svantaggi, come il non potersi permettere di dimenticare nulla di lui, se non correndo il rischio di contraddirsi.

Lei come affronta, ogni volta, il ritorno di Frank Bascombe?
Se ti piace scrivere di un personaggio, come nel mio caso, inventarlo di nuovo ogni volta è un godimento. Mi fa sentire la necessità di lavorare al meglio delle mie possibilità, se no lascerei perdere. Quando cominci un nuovo libro con lo stesso personaggio, per un verso ti dici: ecco, non sto facendo altro se non mandarlo avanti per la sua strada; ma in realtà, la benevolenza che ha acquisito presso il pubblico, la confidenza che ti sei preso con la sua voce, ti impongono di rendere questo personaggio nuovo, di reinventarlo, di uscire dal profilo del precedente carattere, anche se ha lo stesso nome e dice più o meno le stesse cose di sempre. E questo è molto piacevole. Gli svantaggi sono correlati ai privilegi: si può diventare pigri, ci si può basare sui precedenti con cui il lettore ha già stretto un patto di solidarietà, e ci si può annoiare; ma questo a me non accade mai. A volte mi stufo di me stesso, dei miei limiti, di ritrovarmi sempre con le stesse difficoltà da affrontare da oltre quarant’anni; ma lavorare non mi annoia mai. Naturalmente, uno degli svantaggi sarebbe ritrovarsi senza più qualcosa da dire. Lo si scoprirà quando il libro sarà pubblicato, e allora c’è il caso che i lettori pensino: «Oddio basta, avresti dovuto mollarlo dieci anni fa!». Però, ora con Bascombe ho chiuso, quindi non devo più preoccuparmi.

Parlava prima di difficoltà che si ripropongono: può farmi qualche esempio?
Rispondere non mi è facile. In quanto scrittore, mi interessano soprattutto due cose: una riguarda le motivazioni per le quali si è tristi, e a volte si scopre qualcosa di davvero inaspettato. L’altra riguarda le conseguenze dei nostri comportamenti. Rendere l’una e l’altra sorprendenti è ciò che più mi interessa, e questo mi mette di fronte a problemi che affronto continuamente. Ma è sempre come se cercassi di vedere queste questioni, che sono di ordine estetico, non come difficoltà che si ripropongono, ma come grandi opportunità.

È probabile, inoltre, che sia un mio problema stabilire quando fermarmi: ho cercato con tutte le mie forze di scrivere questo ultimo romanzo rendendolo snello, vigilando sulla economia della narrazione, perché il precedente libro su Frank Bascombe mi era sembrato, a posteriori, troppo lungo. «Questa volta risparmierò in descrizioni», mi sono detto, «anche se non mi piacerà. E mi accerterò di dire abbastanza ma non troppo.» Non ci sono riuscito. D’altronde, credo che il motivo per cui si leggono i romanzi non stia tanto nella storia, bensì nel desiderio di venire esposti a una bella lingua. Perciò devo stare molto attento, non indugiare in una scrittura sregolata, selvaggia, devo mantenermi vigile, e questa è una sfida che mi si ripropone continuamente.

Pensa davvero che i lettori di romanzi cerchino una bella lingua più di una buona trama?
Certo che la trama li interessa, ma nei miei libri non la trovano. In tutta la vita ho scritto un solo romanzo che aveva davvero un plot: Canada. Mi è piaciuto molto inventarne la storia, ma poi, benché sia tra i miei libri quello che ha venduto di più, ho smesso di nuovo con quel genere di romanzi. Sono consapevole del fatto che non devo ripetermi, devo spingermi verso qualcosa di nuovo, verso la concretizzazione di una forma di intelligenza più raffinata di quella già raggiunta.

Eppure, lei ha detto che avrebbe voluto scrivere di nuovo, più e più volte «Canada», per il puro piacere di ritrovarsi ancora in quella situazione romanzesca…
Sì, è vero, ma quando sono arrivato alla fine avevo bisogno di rilassare il cervello. E mi sono messo a piangere: non solo, e forse non tanto per quel che accade nel libro, ma per il fatto stesso di essere arrivato fino in fondo. E – ora come ora – non lo rifarei.

Torniamo a Bascombe: come le è venuto in mente di scegliere proprio la Sla come malattia da infliggere al figlio, Paul?
Le racconto com’è andata, prendendola un po’ alla larga: un giorno ero su un taxi a Washington DC con un mio amico che lavora nel governo, e a cui piacciono i miei libri. Aveva appena letto Tutto potrebbe andare molto peggio, e mi ha detto: sai, Ford, dovresti scrivere un altro libro su Frank Bascombe, e ambientarlo nel giorno di San Valentino. «Oh, che bella idea», pensai. E subito gli risposi, «sì, e lo intitolerò Be mine». Pensavo che questa espressione dovesse suonare come una sferzata, il gesto di un vecchio che intendeva dire: «Sii mio figlio». E Paul avrebbe risposto: «Sii mio padre». A questo punto, dovevo inventare una storia che si adattasse al titolo e al giorno di San Valentino, e che motivasse questo avvicinamento di Frank, verso la fine della sua vita, al figlio. Beh, ho pensato, Paul potrebbe essere malato terminale, ma di quale malattia? In America la Sla viene chiamata correntemente malattia di Lou Gehrig, dal nome del grande giocatore di baseball dei New York Yankees, che ne era affetto e ne è morto. Si deve a lui il fatto di avere fatto conoscere al mondo questa sindrome. Venne curato alla Mayo Clinic, dove faccio andare anche Paul Bascombe, per arruolarsi fra i pazienti sottoposti a una certa cura sperimentale. Il fatto che una malattia terribile e fatale prendesse il nome di un giocatore di baseball mi sembrava adattarsi perfettamente alla personalità di Paul, per come l’ho conosciuto in questi anni: è un personaggio discutibile, ibrido, spiritoso, infantile, egoista e amorevole. E ho pensato: questo è il tono del romanzo che vorrei scrivere, dove qualcosa di così terribile cade in un contesto buffo.

Mi è stato detto che ha avuto qualche problema con il suo editore americano, perché le ha chiesto di togliere alcune espressioni che giudicava politicamente scorrette, e lei non lo ha fatto: è vero? E se lo è, mi fa qualche esempio?
È vero, e posso farle un esempio meraviglioso. Mi viene da ridere al solo pensarci. C’è una scena, nel romanzo, in cui Frank e Paul stanno guidando verso casa, e passano davanti – scrivo – «al cieco del quartiere che avanza a colpetti di bastone sul marciapiede ghiacciato e si augura, dietro le lenti scure da cieco, di non cadere dai confini del mondo». La mia editor, una millennial, mi ha detto: «Eh no! Devi cambiarlo». E io: «Perché?» E lei: «Qualcuno potrebbe pensare che questo cieco sia un disabile». «Lo è, ho risposto, si può essere più disabili di un cieco?!». Ma ci sarebbero molti altri esempi. Siccome sapevo cosa sarebbe successo, invece di prepararmi a buttare il mio libro nel cestino, mentre scrivevo ho pensato di inserire qua e là qualcosa che non mi sarebbe dispiaciuto cancellare, per far sentire alla mia editor che veniva rispettata. In realtà, l’ho presa in giro, perché le frasi a cui tenevo davvero le ho lasciate così com’erano. Le farò un altro esempio, davvero ridicolo: a un certo punto del libro, ricorderà che Frank e Paul si imbattono in un casino gestito dagli Indiani della tribù Wahpe-Mippa-Conji.

Mhm… Già abbiamo dovuto superare lo scoglio della parola «indiani», ma volevo tenere questo dettaglio, e così ho insistito e ho anche fatto in modo che in questo casino indiano ci fosse uno strip club. Allora la mia editor mi fa: «Devi cambiarlo». E io: «Perché? Non c’è niente di morboso!» E lei: no, ma ho cercato su Internet e non ho trovato nessun casino indiano negli Stati Uniti che abbia uno strip club». «Beh, ho detto, forse Internet non è il posto giusto dove cercare. E, in ogni caso, questo è un pezzo di fantasia!» Trovo anche interessante che nessuno, in tutta la HarperCollins e lungo tutto il processo editoriale abbia avuto nulla da ridire sul fatto che introduco nella vita di Bascombe una massaggiatrice vietnamita: è lì che mi aspettavo di ricevere molte lamentele. Ma niente, nessuno ha fiatato. Non vogliono che il cieco esca dalla faccia della terra, ma quando introduco nel romanzo una donna che fa parte di una minoranza e la faccio lavorare nell’industria del sesso non battono ciglia. Interessante, no? Certo, sapevano che in qualunque momento avrei potuto riprendermi il libro e portarlo altrove: sarà anche questo, comunque abbiamo a che fare con degli idioti. Tutto ciò che riguarda il processo editoriale non sta funzionando molto bene, direi.

Senz’altro no. Andando a tempi migliori, come mai, secondo lei, tanta letteratura americana del XX secolo ruota intorno a uomini qualunque, com’è Frank Bascombe? Anche se per lei l’espressione «uomo qualunque» – mi ha detto una volta – non ha senso?
Non so rispondere alla domanda generale, ma so il motivo per cui questa espressione non ha tanto senso, per me: quando scrivo di Frank Bascombe o di qualsiasi altro personaggio, lui o lei vengono fuori sempre da una sommatoria dei dettagli che li riguardano, molto specifici, da me molto calcolati, in modo da non essere generalizzabili, bensì applicabili solo a colui di cui sto parlando e solo in quel momento. Inoltre, benché sia lo stesso Bascombe a dire, nel libro precedente: «Noi siamo i nuovi normali», quella che gli metto in bocca è una battuta. L’idea dell’uomo qualunque è un malinteso, che nasce dall’evitare di guardare ciascuno da vicino come invece dovremmo fare se vogliamo raggiungere una qualche forma di empatia.

Sebbene Paul sia nato nel 1972 e abbia quarantasette anni al tempo del romanzo, sia lui che il padre sono uomini pre-tecnologici, quindi ci viene risparmiato l’aggiornamento del vocabolario all’era dei social. Il fatto che lei abbia resistito a questa sirena, implica – nei suoi pensieri – che i lettori ideali dei suoi romanzi siano persone di una certa età, comunque non giovani?
Forse. Sentivo, in effetti, che scrivendo questo romanzo stavo toccando i limiti della mia familiarità con la generazione che è cresciuta con Internet, e che pensa alla vita in termini di tecnologia e si muove usufruendo delle sue mediazioni. Questo potrebbe avere come conseguenza che tra i miei lettori ci siano sono più anziani che giovani; ma non lo so: non guardo mai a questo genere di questioni. Piuttosto, penso che un certo tipo di scrittura, come qualsiasi altra arte, si dia una sola volta, e rappresenti il meglio di quanto si possa fare in quel momento, e solo in modo provvisorio; ma questo non mi disturba affatto. In realtà, nulla di quanto racconto nei miei libri dovrebbe risultare estraneo a un giovane lettore, per quanto occupato dalle chat o da tutte questi derivati da internet che non conosco e non mi interessano molto: parlo del rapporto di un padre con un figlio, e questo mi sembra fondamentale e credo possa riguardare tutti. I miei libri, come quelli di Fitzgerald, di Virginia Woolf e di qualunque scrittore abbia vissuto un cambiamento d’epoca, devono trovare un modo loro per stare al passo con i tempi.

Ha inventato lei tutto ciò che riguarda la Mayo Clinic, dove Frank Bascombe porta suo figlio a curarsi? La descrive come «un colosso gremito e luccicante… dove migliaia di persone entrano ed escono ogni santo giorno sicure al duecento percento che, se c’e una cura per loro, si trova qui, dove appunto hanno avuto la drittaggine di venire… nessuno va via insoddisfatto, anche se esce dentro una bara». In un altro pezzo esilarante, la Consulente per la Compassione ammonisce il gruppo degli accompagnatori dei pazienti: «Non siate il prolungamento» – sorriso d’intesa – «della morte di un’altra persona. Perché potrebbe essere una forma di (esatto, indovinato) egoismo sublimato…»
La figura della Consulente per la Compassione l’ho inventata, ma la maggior parte del resto, no. Ho scritto per esperienza diretta, sono stato un paziente di quella clinica per trent’anni anni, e ogni volta che ci tornavo pensavo: è una esperienza unica, tutto è così interessante, così insolito, devo scriverne assolutamente: è stata una delle molle del romanzo. Intendevo rendere compiutamente non solo la vita interna della clinica, ma le aspettative che trasmette, il lessico che si parla, e tutto il resto della sua organizzazione. Mi sono divertito come un matto nel descrivere quelle scene, ma nessuno della Mayo mi ha poi detto una sola parola sul libro, e questo mi ha ferito.

L’equilibrio e la credibilità dei dialoghi tra padre e figlio, nonostante l’incombenza della malattia, sono forse l’elemento più pregevole di questo romanzo, in cui non c’è nessuna neanche minima caduta stilistica. Qual è la scena che le è stato più difficile scrivere…
Scrivere non mi risulta mai difficile, sono io che scelgo cosa affrontare, nessuno mi obbliga. Detto questo, l’ultimo paragrafo del libro l’ho cambiato più volte: lo avevo scritto al passato, poi l’ultimo giorno sono passato al presente. Per me era il passaggio più importante del romanzo: «se riesco a portare il lettore fino a lì – mi sono detto – allora a quel punto devo essere grande». E così mi sono preoccupato di assegnare a Frank un destino che trovasse d’accordo il lettore: alla fine del romanzo, a un certo punto ha una sorta di blank, di amnesia totale. Subito dopo, mentre sta cercando di ricapitolare i pensieri, sente la voce di Catherine, la sua vecchia amante dalla quale si è andato a rifugiare, che dice: «Dove sei Frank? Sto venendo da te. Ho qualcosa che ti piacerà. Qualcosa di nuovo e di molto diverso». Frank si volta e si chiede chi gli stia parlando. E il libro finisce lì. C’è sempre il caso che, se non li si tengono a freno, i lettori loro si facciano della strane fantasie, e io avevo molto a cuore a che non ci fosse alcuna possibilità di pensare che Frank credesse di parlare con Dio. Mentre scrivevo questo finale, mi sembrava che non tutto mi fosse abbastanza chiaro. Così ho continuato a lavorarci fino al giorno in cui ho consegnato l’ultima bozza. Anche se non è stato difficile, era per me un punto al tempo stesso estremamente critico e importante. Adesso, quando mi rileggo, penso: «Buon per te: ti sei preso un po’ di tempo in più, hai fatto un piccolo sforzo supplementare, ti sei svegliato alle cinque del mattino per metterti alla scrivania, hai guardato l’ultimo paragrafo per la trentanovesima volta, e alla fine quel piccolo cambiamento è stato importante». I giovani scrittori dovrebbero trarne una buona lezione: non abbandonate i vostri libri, scrivete tutto con cura, fino in fondo!

Lei attribuisce a Bascombe gusti semplici, un lavoro ordinario, aspirazioni medie, destinazioni turistiche di massa. Ma allo stesso tempo lo riscatta dalla sua medietà donandogli una intelligenza critica, che gli permette di leggere la realtà in modo molto ironico. Come mai ha pensato di fare convivere in lui attitudini così contraddittorie?
Non ho preconcetti sulle persone. Non credo che la facciata della normalità contempli restrizioni di vedute, di certo non dal punto di vista di una descrizione artistica. Non credo, per esempio, che sulla terra ci siano persone estranee all’eloquenza, siamo tutti capaci di voli di immaginazione meravigliosi. E, soprattutto, provo una fondamentale empatia nei confronti di persone che vivono grandi stress, grandi dolori, grandi felicità, tutte situazioni che ci rendono non poi così diversi gli uni dagli altri. Dal punto di vista della scrittura, quando hai un personaggio che agisce in modo così «normale» – frequenta i motel, va in posti turistici, si identifica con il suo ruolo di agente immobiliare – e la immetti in una specie di vortice emozionale, ti accorgi di quanto possa diventare articolata e sensibile la sua intelligenza.

Anche se legge Heidegger solo per essere certo di addormentarsi subito…
Beh, sì, è un mio piccolo scherzo. Proprio questa facoltà di Bascombe di attrarre il lettore verso due direzioni diverse mi pare dovrebbe suscitare l’interesse del lettore, che davanti allo spirito critico di un personaggio altrimenti votato alla medietà, immagino si chieda silenziosamente: «Com’è possibile?». E il mio compito è appunto far sembrare plausibile ciò che non sembra possibile.

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