In un racconto di Peter Carey del 1975, «Do you love me», interi luoghi scompaiono all’improvviso, mentre edifici e persone si smaterializzano poco alla volta, pezzo su pezzo, di fronte agli occhi attoniti di passanti, amici o familiari che non possono impedirne la totale sparizione, causata, secondo l’interpretazione del narratore, da mancanza di amore. Poiché i racconti di Carey, pur essendo molto noti e antologizzati nei paesi anglosassoni, non sono mai stati tradotti in italiano, ben pochi nel nostro paese riconosceranno una chiara eco di «Do you love me» nell’ultimo romanzo di Richard Flanagan, Il vivo mare dei sogni a occhi aperti (traduzione di Maristella Notaristefano e Piernicola D’Ortona, Bompiani, pp. 252, € 18,00).

È possibile, invece, che qualcuno ritrovi nel suo incipit spiazzante lo stesso incedere frammentato, per brevi frasi spezzate senza reggenti, contraddistinte da indecifrabile confusione delle persone verbali, che caratterizza il periodare di Cortázar in certi racconti enigmatici e ambigui come «Le bave del diavolo». Certo è che l’apertura del nuovo romanzo di Flanagan – una serie di paragrafi brevi o brevissimi (il primo di sole tre parole) sospesi tra il perturbante di Carey e le inquietudini linguistiche di Cortázar – è destabilizzante: solo dopo molte pagine, infatti, si comprende come la sconnessa riflessione iniziale della protagonista faccia riferimento alla scomparsa improvvisa del suo dito indice.

Le sparizioni sono il tema centrale del libro: sparizioni reali, di animali e piante, a causa delle devastazioni ambientali causate dagli incendi nella torrida estate australiana del 2019-20; sparizioni di oggetti, forse rubati, certo mai ritrovati; sparizioni metaforiche, di sentimenti, soffocati dall’onnipresenza virtuale delle nuove tecnologie; sparizioni surreali, di parti del corpo, che scompaiono lasciando al proprio posto solo una lieve sfocatura, simile alla patina che rimane sulle fotografie dopo una cancellatura con Photoshop; e, non certo ultima, la sparizione estrema, la morte, incombente, attesa e rifiutata.
Dramma familiare, ma anche apologo ecologico sull’antropocene, riflessione sull’invecchiamento e l’eutanasia, e al contempo cruda rappresentazione dell’incomunicabilità del terzo millennio, Il vivo mare dei sogni a occhi aperti contiene materiale per almeno quattro romanzi.

Riflessi grotteschi
All’evento di apertura, decisamente fantastico, che si tinge di grotteschi riflessi horror man mano che un numero sempre maggiore di persone perde pezzi di corpo e mostra di non avvedersene, si contrappone la vicenda di tre fratelli di mezza età di fronte alla madre morente. Il più vecchio dei maschi, Tommy, un pittore fallito che si prende cura della madre in Tasmania, si oppone all’accanimento terapeutico voluto dagli altri due, professionisti di successo sul continente, che si ostinano a pagare cure sempre più invasive per mantenere la povera donna in «un costante delirio di vita che in effetti non si poteva dire vita». Mentre l’Australia è distrutta dagli incendi e una densa cappa di fumo catramoso opprime la Tasmania, l’anziana donna reagisce alle pesanti terapie dapprima oscillando tra miglioramenti improvvisi e altrettanto repentini peggioramenti; poi, disintegrandosi lentamente, «come se, non potendo morire nel loro complesso, le parti del suo corpo si arrendessero singolarmente… dopo aver smesso di lottare». Il suo concreto sfaldarsi si oppone alle sparizioni di parti del corpo, senza ferite e senza cicatrici, che colpiscono le persone intorno a lei; non per caso, la vecchia matriarca è l’unica ad accorgersi che alla figlia manca un dito.

Anche se, nelle interviste rilasciate all’uscita del libro, Flanagan ne ha sottolineato soprattutto la denuncia ecologista, è il contrasto tra il romanzo familiare realistico e l’irrealistico e inquietante orizzonte delle sparizioni a rendere Il vivo mare dei sogni a occhi aperti unico nel suo genere. Le descrizioni di una natura incontaminata che va scomparendo sono di raro lirismo pittorico, ma è l’atteggiamento dei tre fratelli, su cui aleggia il trauma mai superato del misterioso suicidio di un fratellino minore, a costituire l’enigma fondante del romanzo, soprattutto se messo in relazione con le inquietanti sparizioni che sconvolgono tanto il mondo naturale quanto le realtà individuali dei protagonisti. Mentre tangibile è la progressiva scomparsa di insetti, piante, pesci, molluschi, uccelli dovuta al disastro ecologico e concreta la morte che incalza, le progressive sparizioni di parti del corpo non solo amplificano metaforicamente la consapevolezza di una prossima scomparsa del mondo in cui viviamo, ma si prestano anche ad altre, molteplici, interpretazioni. Per Anna, la primogenita della famiglia, attraverso il cui punto di vista di donna di successo, ambiziosa e sola, è filtrata l’intera vicenda, la perdita di un dito, di un seno o del naso è vista come un segno del tanto temuto invecchiamento.

Questo la porta a un continuo, ancorché indesiderato, confronto tra la sua vita e quella della madre: la scomparsa di parti del corpo non fa che enfatizzare quell’invisibilità cui ormai si è assuefatta in ambito sociale e che la porta a preferire lo schermo del cellulare al contatto con i suoi simili. All’osservazione di Tommy, il fratello povero, coscienza morale del libro, che le fa notare come la vita della madre sia stata un trionfo della volontà a dispetto degli ostacoli, Anna reagisce imprigionando quella stessa volontà con una «interferenza aggressiva» nelle terapie ospedaliere, incurante del desiderio di essere lasciata morire che la donna ha espresso con l’ultimo filo di voce.

Afasia, scarabocchi
Del resto, le parole, in questo mondo devastato, non hanno più valore, sostituite dalle immagini sui telefonini, il cui scorrere incessante è imitato da Flanagan in lunghe frasi senza punteggiatura. Non per caso, Tommy è balbuziente; dopo l’ictus, la madre non riesce più a parlare e riempie pagine e pagine di scarabocchi indecifrabili; di fronte al figlio Gus, che svanisce un po’ di più ogni giorno, immobile e silenzioso davanti al computer, Anna riflette sull’inaffidabilità delle parole, soprattutto quelle usate per i sentimenti: «a volte Anna si chiedeva se non fosse più saggio non nominare le cose che senti veramente, così da poter continuare a sentirle. Dare un nome è come inchiodare una cosa alla croce, bloccarla a mezz’aria; tutti i nomi, pensava Anna, sono pallottole in cerca di un bersaglio da uccidere».

In un simile contesto, nessuno ammette la propria paura, la solitudine, l’incomunicabilità. Chiudendo gli occhi sul disastro circostante, ognuno crede alla propria storia, perché smettere di crederci significherebbe fare i conti con la realtà. L’accanimento a tenere in vita la madre appare allora tanto un ostinato tentativo di procrastinare il confronto con la realtà esterna quanto un altrettanto testardo (e crudele) aggrapparsi all’unica forma di corporeità tangibile in un mondo indifferente, ridotto nei simulacri di infiniti schermi, che rifiuta di prestare attenzione a un universo offeso e in disfacimento.