«Rhapsody in Blue», anatomia di un simbolo americano
La Rhapsody in Blue da quel 12 febbraio 1924 «ne ha fatta di strada», arrivando, soprattutto dal secondo Novecento, con la giusta distanza storica, a rappresentare il simbolo musicale dell’immaginario collettivo americano (e non): la bellissima sequenza con cui Woody Allen apre il film Manhattan (1981) con le inquadrature in bianco e nero sui dettagli dei grattacieli Art déco, viene contrappuntata proprio dalla raffinata esecuzione della «rapsodia» diretta da Zubin Mehta con la New York Philharmonic; esattamente vent’anni dopo, la Walt Disney Company, forse per bissare il successo del capolavoro Fantasia (1940), propone il sequel Fantasia 2000 con repertori ultraclassici; fra I pini di Roma (Respighi), la Quinta Sinfonia (Beethoven), Il carnevale degli animali (Saint-Saëns), L’uccello di fuoco (Stravinskij), Pomp and Circumstance (Elgar) c’è pure la Rapsodia in Blu, l’episodio forse migliore dell’intero lungometraggio, con un design omaggiante le riviste illustrate o la grafica liberty degli anni Venti, grazie alla regia di Eric Goldberg e alle animazioni di James Baker, Nancy Beiman, Bert Klein; gershwiniano pare addirittura il soggetto: nella coatica New York della Grande Depressione s’intrecciano le vicende di un giovane jazzofilo, un apatico disoccupato, una vivace ragazzina, uno stanco marito; divertente anche il cameo alla Hitchcock con la caricatura di George pianista in gran spolvero (doppiato da Ralph Grierson), mentre a condurre c’è Bruce Broughton con la britannica Philharmonia Orchestra e Jim Kanter al clarinetto per l’arcinoto incipit.
OLTRE IL BIOPIC
Tuttavia, a livello audiovisivo, occorrerebbe riscoprire una pellicola del 1945 oggi dimenticata: Rhapsody in Blue di Irving Rapper, con l’italoamericano Robert Alda nei panni del compositore, non è solo il tipico rassicurante biopic sull’artista predestinato, ma resta anche una sorta di dibattito teorico e sfida aperta fra «classicisti» e «modernisti», ossia fra i conservatori della tradizione musicale dotta (l’anziano maestro Franck) e i progressisti amanti della blackness musicale espressa da jazz e ragtime (ovviamente Gershwin stesso). Il parziale happy end – funestato dalla morte del protagonista – mette tutti d’accordo, almeno nel film, anche mediante una magistrale regia nel seguire l’esecuzione della Rapsodia e del conclusivo Concerto in Fa: inquadrature dall’alto, montaggio serrato, brevi sequenze alternate, mostrano visivamente le qualità strutturali di un suono mescolante svariate «moderne tradizioni», se è lecito accostare i due termini: davanti al pianoforte siede Oscar Levant – nella vita amico del vero Gershwin – che, in veste di attore, sarà il musicista squattrinato di An American in Paris (1951), colorata e divertente riduzione in musical cinematografico dell’altro grande poema sinfonico, qui realizzato da un cast stellare: Vincent Minnelli (regia), Alan Jay Lerner (soggetto), Gene Kelly, Leslie Caron e appunto Levant (interpreti), Johnny Green e Saul Chaplin (arrangiatori e premi Oscar per la Miglior colonna sonora, basata sull’intero repertorio gershwiniano).
Al di là del cinema, la Rapsodia in blu non gode di molti consensi nel vecchio continente: l’Europa, per i successivi vent’anni in preda alle dittature, soffre una politica «culturale» neoclassicista per quanto concerne la musica seria – fa eccezione la sola Parigi delle avanguardie che (ricambiata) ama follemente Gershwin a tutto tondo (canzonette incluse). In Italia persino il musicologo antifascista Massimo Mila – che da oppositore del regime sconta molti anni nelle patrie galere – risulta tiepido verso la Rapsodia, ritenendola un po’ ingenua nel costrutto armonico (peraltro dovuto a Gofré, come ricordato da Festinese qui accanto), nonostante i sinceri apprezzamenti per le parti genuinamente esotiche: del resto lo stesso Mila, qualche anno prima, al teatro Chiarella di Torino, recensisce gli unici due concerti italiani di Louis Armstrong, sottolineandole «l’art nègre» (la stessa che, oltralpe, manda in visibilio dadaisti, espressionisti, cubisti, astrattisti) subendo le reprimenda di taluni gerarchi gabbati da un impresario illuminato in grado di aggirare, almeno una volta, censure e divieti. E a proposito di fascismo occorre ricordare Arturo Toscanini che, esule in America, dopo il ceffone mollatogli in pubblico da un federale inviperito per il rifiuto del direttore a eseguire l’inno Giovinezza prima del concerto, è il primo italiano, ovviamente negli Stati Uniti, a eseguire su disco e dal vivo la Rapsodia con la Nbc Symphony Orchestra nel 1942, allo Studio 8H nella newyorkese Radio City.
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New York 1924, esperimento jazzSPIRITO ORIGINARI
Da allora trascorrono decenni prima che buone versioni del capolavoro si ascoltino anche in Italia: è soprattutto dagli anni Ottanta il periodo in cui finalmente è riconosciuta in toto l’influenza del newyorkese sui successivi tentativi di coniugare classica e jazz sia da parte dei musicisti colti (Ravel, Honegger, Shostakovic, Stravinskij, Antheil) sia nel sound afroamericano dal progressive di Stan Kenton alla third stream di Gunther Schuller, dalla new thing alla free improvisation nordeuropea, dall’Ecm Style alla musica totale di Giorgio Gaslini.
Le versioni discografiche della Blu sono quasi infinite: ad esempio Stanley Black, Philippe Entremont, André Kostelanetz, Henry Adolf, Arthur Fiedler, Erich Kunzel, Michael Tilson Thomas sono i direttori, da venti, trent’anni presenti su cd. Vale tuttavia la pena rammentare un paio di riletture «contemporanee» e «italiane». Nel 2010 Riccardo Chailly, con la Gewandhausorchester, chiama l’estroso Stefano Bollani al pianoforte, il quale ricorderà di improvvisare talvolta in alcuni passaggi, senza però tradire lo spirito originario, ma suscitando di conseguenza le ire dei puristi, ignari magari del fatto che pure Gershwin è un figlio delle diaspore e delle musiche improvvisate audiotattili, nate a fine Ottocento a New Orleans dal confronto fra bianchi, neri, creoli, ispanici, immigrati europei. Da sempre interessato al Novecento, già nel 1987 con la Cleveland Orchestra, Chailly la registra assieme alle sorelle francesi Katia e Marielle Labèque, poi attive a Roma e a loro volta «autrici» di Second Rhapsody per due pianoforti. Del resto compositori/esecutori vicini al jazz – Leonard Bernstein, André Previn, Jean-Yves Thibaudet – forniscono le proprie versioni più o meno filologiche, mentre il tastierista brasiliano Eumir Deodato nel 1973 ottiene, al secondo singolo, una hit mondiale con il 45 giri Rhapsody in Blue/Super Strut (poi nell’album Deodato 2) in versione funky.
È però infine il grande jazzista newyorkese Uri Caine a offrire un lavoro quasi iconoclasta con Caine/Gershwin Rhapsody in Blue (2013), di cui in una conversazione privata dice: «Con il mio gruppo Gershwin Quartet ho voluto arrangiare Rhapsody in Blue con il pianoforte come solista. L’altro materiale era soprattutto musica dagli show di Gershwin che io avevo suonato fin da ragazzo. Sono ispirato dall’enorme varietà della musica di Gershwin, dall’energia jazzistica della sua musica così come dal suo modo di suonare il pianoforte. E Gershwin fu ispirato direttamente da grandi pianisti jazz newyorkesi del suo tempo, come James P. Johnson, Fats Waller e anche da Duke Ellington, e la sua musica riflette la profonda influenza ed energia del jazz. Ma non andrei oltre».
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