Quando si usa l’aggettivo «moderno» è il caso di prestare attenzione. In un attimo quella percezione di novità finisce nel dimenticatoio del passato. Fino a un’altra modernità annunciata che percorrerà più o meno le stesse tracce. Eppure ci sono momenti storici che, causa il premere sotto soglia di un reticolo di pulsioni dalla società in movimento, ci continuano ad apparire «moderni» anche se sono storia. Momenti di dirompenza, di affioramenti e visibilità per ciò che era sottotraccia.

Cento anni fa esatti c’erano due mondi speculari, da una parte e dall’altra dell’Oceano. Nel 1924 l’Italia era in mano a Mussolini che andava rivendicando la piena responsabilità morale e politica per le pugnalate a Giacomo Matteotti. Il tenue filo culturale che legava l’Europa agli Stati Uniti lo maneggiavano Inghilterra e Francia e anche la Germania di Weimar del Kabarett. Gli Stati Uniti del 1924 marcano la presenza tumultuosa della «Harlem Renaissance», fitta trama di musical, letteratura, nuovo giornalismo, moda, teatro: tutto declinato al nero, la creatività afroamericana in pieno rigoglio che, pur in zone urbane, irrompe e alza l’asticella della dignità.

Ma il 1924 degli States segna anche un centenario di modernità che ha lasciato il segno, perché, si diceva, a volte certi avvenimenti hanno il potere di fissare l’attimo. Dobbiamo a una figura spesso presentata come controversa nella storia del jazz, ma all’epoca centrale, l’organizzazione di una serata a New York che stabilì un prima e un dopo per le nuove musiche, rami innovativi dal tronco afroamericano. L’organizzatore era Paul Whiteman.

UN PRIMA E UN DOPO

Si tenne martedì 12 febbraio 1924 all’Aeolian Hall di Manhattan, tempio della musica classica. Il titolo: Experiments in Modern Music. Era una giornata orribilmente fredda. Una bufera di neve investiva New York. I millecinquecento posti disponibili vennero presi d’assedio da una folla sovreccitata. Le limousine facevano la fila, per la strada. Vale una riflessione, il titolo: chi si fosse presentato alla cassa doveva esser ben conscio di pagare per qualcosa di «sperimentale», e che aveva il suo humus nella «musica moderna».

Ad ogni buon conto Whiteman, nomen omen, era considerato negli anni Venti «il» jazz. Non King Oliver, non Armstrong o Ellington o Bechet. Tantomeno lo sprezzante Jelly Roll Morton, l’uomo-compendio vivente del jazz delle origini. Whiteman incarnava alla perfezione lo «sweet jazz». «Dolce», a contrastare una supposta durezza accalorata dell’«hot jazz». In repertorio brani con una sezione di sax, una di violini (lui stesso era un valido violinista), una parte cantata, ritmi filanti ma non straripanti, ballabili. Evitata ogni «grottesca» e «nera» sottolineatura di suoni e timbriche eccessive. Whiteman aveva però il fiuto giusto per i musicisti: con lui suonavano Bix Beiderbecke, Frank Trumbauer, Eddie Lang, Jack Teagarden, Joe Venuti. I vocalist Bing Crosby e Mildred Bailey debuttarono con lui. Tutti jazzisti veri. Non neri. Anche se qualcuno con l’epidermide più scura passò per la sua orchestra.

L’idea che balena a Whiteman è quella di presentare un programma che mostri il progressivo «affinamento» del jazz dalle sconvenienti radici nere e creole di New Orleans, così lontana dalla raffinata New York, alla contemporaneità di chi avrebbe messo d’accordo jazz selvatico e rispettosa musica «classica». Per il suo «esperimento» trovò il musicista giusto, dinamico, conoscitore del jazz, del ragtime, della nuova «song» da Broadway: George Gershwin. Aveva ventisei anni, e non era la prima volta che Paul Whiteman faceva conto su di lui. Gershwin, songplugger già a quindici anni, dunque «dimostratore di canzoni» al pianoforte per editori a caccia di nuovi successi. Whiteman c’era entrato in contatto nei primissimi anni Venti: gli serviva aiuto per scrivere qualcosa per George White’s Scandals, un lavoro a cadenza annuale che rimase in scena a Broadway per ben vent’anni, tra il 1919 e il 1939. Sta di fatto che Paul Whiteman mise una gran fretta a George Gershwin per avere qualcosa di palpabilmente «nuovo» per quel 12 febbraio: il dibattito e le aspettative su quel processo sincretico musicale erano pressanti, a New York.

TRENTA GIORNI

Qualcuno avrebbe potuto precederlo, ad esempio l’amico rivale caporchestra Vincent Lopez. Costui dal 1916 aveva la sua orchestra da ballo in azione a New York, ma la svolta verso la notorietà l’aveva ottenuta con il nuovo medium: la radio. Nel 1921 il caporchestra e pianista aveva un radio show settimanale da 90 minuti e nella sua orchestra via via compaiono musicisti d’eccellenza come Artie Shaw, Glenn Miller, Jimmy e Tommy Dorsey. Tant’è che due giorni prima degli Experiments aveva tenuto una conferenza alle Anderson Galleries di New York proprio sulle «novità del jazz», facendo seguire al tutto un suo concerto. Così Gershwin si trovò ad avere una trentina di giorni per ideare un nuovo impegnativo pezzo. E tenendo conto che Whiteman, alla sua serata avrebbe invitato musicisti, direttori d’orchestra, ballerini, manager dell’industria musicale, gente abituata al varietà del vaudeville, schiere di «flapper», le ragazze alla moda con i capelli corti e una gran voglia di ballare. Di tutto un po’, tutti con occhi e orecchie puntate.

Composizione febbrile, concepita per due pianoforti: Gershwin non era un arrangiatore orchestrale, il compito da effettuarsi a velocità radente è affidato al navigato Ferde Grofé. Grofé mise mano alle idee melodico-ritmiche di Gershwin creando parti scintillanti e a forti contrasti dinamici per l’ensemble già assestato: clarinetto, sassofoni, ottoni, contrabbasso, percussioni, piano, banjo, otto violini. Non c’era in partitura il sorprendente glissando di note che s’impennano e che resta il «marchio di fabbrica» della Rapsodia, quando inizia. Fu un’idea scherzosa del clarinettista Ross Gorman. Il «blue» associato al titolo fu invece un’idea del fratello di George, Ira: aveva assistito a una mostra di quadri del pittore contemporaneo James McNeill Whistler, dove ogni opera aveva come titolo un colore, quel «blue» aveva molto a che fare col blues.
Nella prima parte della serata iniziava il «viaggio nel jazz» e nella sua supposta «evoluzione»: titolo del primo set The True Form of Jazz, la sostanza autentica del jazz. A New York tale «sostanza autentica» andava a coincidere col clamoroso successo che aveva avuto la Original Dixieland Jass Band del cornettista Nick La Rocca, che con la «autenticità» aveva ben poco a che fare. Una band tutta di bianchi che arrivava da New Orleans, che aveva fatto successo a Chicago, e che, a New York, appariva come un rozzo ma assai eccitante tornado di suoni sguaiati, conditi da spettacolari movenze sceniche. Tutto imparato a memoria e riprodotto come fosse una rumorosa baldoria improvvisata. Prima, per la cronaca, c’era stato il successo con i numeri grossi di Livery Stable Blues, primo 78 giri della storia del jazz, 1917. Un brano scintillante e greve, con gli ottoni e il clarino che simulavano nitriti e versi di animali da cortile, roba quasi sconveniente, per la borghesia di New York.

IL «NOVELTY»

Salì sul palco poi Zez Confrey con la sua band, un musicista che George Gershwin conosceva bene, di cui probabilmente aveva studiato la manualistica. Confrey era un pianista di ragtime strepitoso, ma un ragtime pieno di trucchi armonici, virtuosismi effettistici, trucchi sonori: il «novelty».

Quando suonò Kitten on the Keys, un brano che aveva trionfato nel mercato, fu un’apoteosi: non c’era il tempo per stupirsi di un passaggio eseguito sulla tastiera che già la mente faceva fatica ad assorbire quanto passava per le orecchie una frazione di secondo dopo: trilli, cromatismi, effetti percussivi. Prese poi il palco Whiteman con la sua orchestra. Poi i classici del momento di Victor Herbert e Edward McDowell, e via con la seconda parte, con la misteriosa Rapsodia in blu. Alla fine ci furono cinque chiamate da parte del pubblico. Oggi ci può far sorridere, l’idea di un concerto «a tema» con indizi affastellati di una cronologia e di una storia possibile per il jazz. Ma fu il primo mattone per costruire un edificio storico più affidabile e credibile, con i veri «pesi» storici, estetici, sociali: quello che arriva all’oggi.