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Retorica patriottica e illusione liberista

Nuova Finanza Pubblica

Nuova finanza pubblica La rubrica settimanale di politica economica. A cura di autori vari

Pubblicato circa un anno faEdizione del 12 agosto 2023

Qualche mese fa diversi economisti, commentatori e governo esaltavano il sorpasso nei ritmi di crescita dell’Italia ai danni della Germania. Una parabola che addirittura ipotizzavano fosse la risultante di molteplici fattori, anche di ordine strutturale. A metà giugno in questa rubrica, con Corradi, sottolineavo come questa compiacenza fosse di vedute corte. Oggi a raggelare gli animi è arrivato il dato sul Pil italiano del secondo trimestre del 2023: pari a -0,5%, ben al di sotto delle attese e peggiore di Germania, Francia, Spagna, rispettivamente al 0%, +0,5%, +0,4%. Paesi diversi tra loro e che in ogni caso continuano a faticare, ben lontani da una ripresa economica stabile.

Tant’è che non è il caso di soffermarsi eccessivamente sulle virgole, quanto di descrivere tendenze e processi in atto. L’entusiasmo per il presunto superamento era frutto tanto di una miope retorica patriottica tanto in voga, quanto di un’illusione liberista. In entrambi i casi, la prospettiva risultava estranea al contesto internazionale. Approccio bizzarro per un paese che altrettanto retoricamente sottolinea come le sue potenzialità provengano dall’export e dal famigerato made in Italy. Per molti versi, infatti, con la sua seconda industria europea, il Belpaese è uno dei principali sub-fornitori della catena produttiva tedesca. Componentistica e automotive in primis.

Se Berlino piange, dovrebbe risultare chiaro che Roma fatica a ridere. E non sarà certo il turismo a poter sostituire, in termini di volumi di affari, quanto si perde nel settore industriale. Tanto più che emergono avvisaglie su come l’inflazione da profitti (cioè lo smisurato aumento dei prezzi, sganciato dall’aumentare del costo delle materie prime ormai) anche nel turismo sta conducendo a una ritirata perlomeno della domanda interna. A ciò si aggiunga un contesto globale che rimane complicato.

La Cina sta registrando una contrazione di export e import a due cifre, nonostante i crescenti affari con Mosca. A cui si sommano crisi immobiliare e stagnazione della domanda interna. E ora si aggiunge un principio di deflazione. Dati che hanno conseguenze negative dirette in particolare per l’Europa, principale sbocco dei commerci di Pechino.

Per l’Italia rescindere progressivamente i rapporti con la Cina e la sua Via della seta risulta problematico. Ma se una regionalizzazione degli scambi internazionali è in corso, gioire delle sfortune del cuore del Vecchio continente risulta incomprensibile. Tanto più se la nuova competizione internazionale si fonda su un supporto all’impresa dei rispettivi Stati, come sta accadendo in particolare negli Usa e in Cina. Anche in questo caso impresa e governo italiani criticano l’ipotesi di una funzione pubblica, che ritengono ricadrebbe sulle rispettive casse nazionali, e Roma brilla per mancanza di spazio fiscale. Una visione che ripiega sul piano nazionale e non considera credibile un rafforzamento a livello continentale, contribuendo a far procedere in ordine sparso i paesi dell’Unione Europea.

Resta, così, l’ipotesi di agganciarsi agli Stati Uniti, unico paese occidentale che contestualmente riesce per ora a crescere, a contrastare l’inflazione e praticare politiche fiscali espansive che potrebbero risultare utili. Anche lontano da Washington. E qui torniamo ai difetti del modello produttivo italiano: bassa specializzazione, bassi salari, competitività incentrata sui prezzi, pochi servizi. Le dispute sul salario minimo per legge che coinvolgono le forze politiche in alterne parti in commedia ne sono un evidente indicatore.

Diventare la Cina degli Stati Uniti dunque: una prospettiva che vede convergere il crescente nazionalismo con il liberismo di casa nostra. L’indubbia solerzia praticata da Meloni in campo Nato farebbe pensare che sia più che un’ipotesi, che fornisce, oltre ogni retorica patriottarda, la cifra dei profondi limiti del paese.

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