Biennale Arte, i nostri Leoni d’oro
19 aprile 2024 — VENEZIA
Foto di: Costanza Fraia
Testi di: Arianna Di Genova—A cura di: Arianna Di Genova e Costanza Fraia
Gran Bretagna
È enciclopedico il padiglione di John Akomfrah: l’artista e regista di origini ghanesi, cofondatore del Black Audio Film Collective, voce filosofica che decostruisce il colonialismo, è stato scelto per rappresentare la Gran Bretagna ai Giardini. La sua mostra è una immersione profonda nella storia del mondo raccontata attraverso il fluire dell’acqua e una divisione in Canti, fra Dante e Ezra Pound. Pescando in archivi visivi e memorie proprie, dalle meduse che ondeggiano alle proteste politiche fino al lavoro operaio e alle infanzie “lavate” dalla pioggia, Listening All Night to the Rain è un inno cosmologico che invita all’ascolto del pianeta, quasi messianico. Un viaggio ipnotico tra ingiustizie razziali, eredità coloniali, migrazioni umane e disastri ecologici. Si entra da un seminterrato, risalendo in superficie, come nei gironi infernali. A riveder le stelle. Il suono è il Virgilio di questa peregrinazione tra i fantasmi della mente.
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Biennale Arte 60, l’attivismo del suonoNigeria
A cura di Aindrea Emelife, la mostra collettiva Nigeria Imaginary ospita Tunji Adeniyi-Jones, Ndidi Dike, Onyeka Igwe, Toyin Ojih Odutola, Abraham Oghobase, Precious Okoyomon, Yinka Shonibare CBE RA e Fatimah Tuggar ha come cuore del progetto, supportato dal Museum of West African Art, la linea che va dalla nostalgia all’utopia. Esplora il ruolo della Nigeria nel passato nel presente e lo proietta nel futuro, in un puzzle di linguaggi diversi – pittura, fotografia, disegno, installazione, scultura, realtà aumentata, suono e film. Archivio e incubatore di storie, il padiglione ha fra i lavori centrali quello di Yinka Shonibare: Il suo Monument to the Restitution of the Mind and Soul che indaga l’impatto duraturo dell’Impero britannico. Realizzato in argilla, il monumento replica 150 oggetti saccheggiati da Benin City nel 1897, incluso un busto di Sir Harry Rawson, in stile Batik. L’altra opera significativa è quella di Ndidi Dike: centotrentasei bastoni di legno nero, un tempo utilizzati nella Nigeria coloniale e postcoloniale. Blackhood: the Living Archive parla dell’eredità della violenza della polizia, un’eredità mortale che si esporta di paese in paese.
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Biennale Arte 60, femminismo africano, un’antica e fragile storiaDanimarca
Prima volta della fotografia nel padiglione e prima volta di un artista groenlandese, quindi nativo. La Groenlandia è un territorio autonomo all’interno del Regno di Danimarca, con una lunga storia coloniale alle spalle, che deve scrollarsi di dosso, combattendo anche il pregiudizio di chi la guarda. Rise of the Sunken Sun di Inuuteq Storch indaga una vicenda geopolitica e culturale stratificata, non dimenticando i territori dell’intimità. Dice Innuteq che la Groenlandia e i suoi abitanti sono sempre stati fotografati fin dall’Ottocento soltanto come forma di documentazione su un popolo e le sue tradizioni. Ma è ora di decolonizzare lo sguardo. E lui lo fa sfogliando l’album di famiglia dei suoi nonni, ma anche una raccolta digitalizzata di fotografie storiche di John Mшller, il primo fotografo groenlandese professionista. A rendere il padiglione una installazione paesaggistica c’è una scultura fluorescente che mima il tramonto nordico degli inuit.
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Biennale Arte, una Groenlandia come non si è mai vistaBenin
La prima volta del paese africano all’Arsenale della Biennale non delude. E il suo padiglione intitolato alla “fragilità preziosa”, che parla di schiavismo, femminismo antico e attuale (la storia delle Amazzoni del Dahomey), riti sacri del vudù, a cura di Azu Nwagbogu, con la collaborazione degli artisti Ishola Akpo, Moufouli Bello, Romuald Hazoumè con le sue maschere africane nate da taniche di benzina e Chloé Quenum, sviluppa una tematica che invita all’accettazione della pluralità identitaria e che celebra la capacità di oltrepassare i confini. L’omaggio è al ruolo stratificato delle donne nella società beninese e nella narrazione collettiva del paese, dato il loro apporto predominante nella cultura, nel culto, nella politica e negli affari sociali.
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Biennale Arte 60, femminismo africano, un’antica e fragile storiaPortogallo
Greenhouse vede tre curatrici artiste come Monica de Miranda, Sonia Vaz Borges e Vania Gala costruire un progetto che sfuma i confini delle discipline: un’artista visiva, una ricercatrice accademica e una coreografa. Il loro giardino creolo, presentato all’ultimo piano di Palazzo Franchetti parte da una riflessione di Glissant (che torna prepotentemente in scena, anche nel padiglione francese e in quello inglese) ispirata dagli appezzamenti privati coltivati dagli schivi come atti di sopravvivenza e ribellione. Erano l’antitesi delle piantagioni monocolturali. E divenivano spazi di liberazione e di invenzione di nuovi mondi a propria misura. Piante originarie di paesi africani invadono così le bellissime sale, creando una nuova ecologia decolonizzata. Il padiglione celebra due date storiche: il centenario di Amilcar Cabral, leader anticoloniale, agronomo e poeta, e il cinquantesimo anniversario della Rivoluzione dei garofani.
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L’isola sospesa fra realtà e immaginazioneSerbia
Exposition Coloniale è la Serbia della Biennale che risponde al tema di détournement proposto dal curatore Pedrosa. Per il paese balcanico c’è Aleksandar Denić (Belgrado, 1963, oltre che artista è anche scenografo), con la cura di Ksenija Samardžija. All’interno è tutto un transito, luoghi impermanenti, incontri effimeri, l’estraneità è ribadita ovunque. L’architettura è come una istituzione totale che riporta stanze, bar, ingressi, porzioni di città, posti evasi dall’anonimato ma anche attraversati da improvvise epifanie e incontri. Ogni luogo è al contempo abitato e disabitato, contenendo le tracce di un’umanità di passaggio.
Padiglione ceco e slovacco
ll cuore di una giraffa in cattività pesa dodici chili in meno di Eva Koťatkova (con molte collaborazioni, fra cui bambini e anziani) narra – in una prospettiva decoloniale e ecologica – la storia di Lenka, la giraffa che arrivò in Cecoslovacchia dal Kenya nel 1954. Trasportata allo zoo di Praga sopravvisse solo due anni alla cattività e, dopo la morte, il suo corpo fu donato al museo nazionale per essere esposto (dove rimase fino al 2000). Il progetto collaborativo dell’artista è anche un incontro poetico che impiega una pratica educativa per reimmaginare una biografia dell’animale, trasformandone i connotati e rendendoli universali. Kotatkova, fra le artiste più significative del paese, lavora come educatrice e attivista impiegando tecniche alternative che favoriscano la relazione con l’altro da sé.