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Resistere per cambiare. La «normalità» feroce dei «normali»

Pandemia Qualche giorno fa ho scritto su facebook che più che resistere, resistere, il motto dovrebbe essere: cambiare, cambiare. Qualcuno mi ha risposto: d’accordo, ma cambiare cosa e in che direzione. […]

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 27 marzo 2020

Qualche giorno fa ho scritto su facebook che più che resistere, resistere, il motto dovrebbe essere: cambiare, cambiare. Qualcuno mi ha risposto: d’accordo, ma cambiare cosa e in che direzione. Può questa pandemia essere un’opportunità per un cambiamento, almeno per i singoli individui? Difficile rispondere perché se a livello europeo prima o poi si ristabiliranno regole ferree per contenere i costi sostenuti per eliminare la pandemia e quelli dovuti al mancato profitto delle imprese, se prevarrà la competizione tra Stati sulla cooperazione, se il settore delle armi continuerà a produrre senza sosta, cosa può fare un singolo individuo rispetto a questa potenza di fuoco?

E il contenimento forzato del consumo non esploderà (a pandemia conclusa) in una ricerca forsennata di quei beni inutili di cui ci siamo per tutto questo tempo privati?

Occorrerebbe in primo luogo un ripensamento dei partiti della sinistra che privilegia l’economia prima del diritto alla vita. Per fare qualche esempio, oggi quelli che più risentono del rischio di contrarre il contagio (per loro quasi letale) sono gli anziani costretti a lunghe file nei supermercati.

Ma in tempo di pace le loro difficoltà erano praticamente le stesse (tolto il rischio del contagio). Non si potrebbe allestire una qualche procedura che renda meno sofferente la loro vita pubblica e considerarli (come ha ben detto Laura Marchetti su il manifesto del 24 marzo) una risorsa di saggezza da spendere anziché macchine improduttive? E nelle università non c’è forse da riflettere su cosa modificare nella struttura delle discipline che producono inutili specialismi per renderle più adatte a fronteggiare calamità di questo ed altro tipo? Continuare a saccheggiare il pianeta come fosse una miniera da cui estrarre una ricchezza infinita, non ci ha forse insegnato che è come segare il ramo sul quale siamo seduti?

Dovremmo forse riflettere su quella «normalità» della quale auspichiamo a gran voce il ritorno. La normalità dei «normali», ovvero di coloro che producono, dei consumatori che affollavano, prima della pandemia, i magazzini dell’Ikea, delle masse di turisti che hanno depredato i centri storici delle nostre città, dei sostenitori delle grandi opere inutili se non per rispondere a una dittatura economica che le vuole. Saccheggiando e distruggendo le uniche grandi conquiste pubbliche del Paese: la sanità e l’istruzione, come fossero un inutile orpello che impediva il libero dispiegamento del mercato e del profitto. Le abbiamo adattate alle norme del mercato che esige che siano produttive in primo luogo. E così – scriveva Marcello Cini – abbiamo scavato quel fossato che separa il livello degli specialismi da quello dei problemi dei comuni cittadini.

E così abbiamo chiuso ospedali «improduttivi» e lasciato il campo alla sanità privata che oggi possiamo chiederci: a che serve se non per marcare ancora di più quella disuguaglianza che divide cittadini di serie A da quelli di serie B?

E che ne è di coloro che anche prima dell’esplosione della pandemia «normali» non lo erano? Dei migranti, delle badanti non in regola, dei senza tetto, dei raccoglitori di pomodori, dei reietti e dei dannati della terra? Non credo che loro auspichino il ritorno alla «normalità», quella normalità feroce che li metteva al bando come fossero una sorta di «nemici» dai quali difendersi, una minaccia pubblica. Dove sono finiti? Risucchiati nel cono d’ombra, sono scomparsi e con loro la grande minaccia di attentato alla nostra integrità nazionale, sostituiti da un nemico invisibile che non conosce frontiere.

Infine qualche riflessione sul consumismo. Non si può eliminare per decreto né demonizzare, né sarebbe auspicabile farlo. I consumatori dovrebbero prendere coscienza del loro potere latente e richiedere una produzione di beni più adatta alle esigenze di un vivere sano piuttosto che essere i sudditi ubbidienti del mercato che stabilisce esso quali sono e quali non sono le esigenze del cittadino. Vale per i telefonini cellulari che bisogna cambiare ogni anno ai farmaci inutili di cui sono pieni i nostri scaffali nel bagno. Sapremo farlo?

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