Um Darit è fatta di alture rocciose e desolate. Viverci non è semplice. Fare scorta di acqua potabile è uno degli impegni quotidiani per i suoi abitanti e per quelli delle altre piccole comunità palestinesi sparse nell’area di Masafer Yatta, a sud di Hebron, nella Cisgiordania occupata. Senza contare che per raggiungere Um Darit occorre percorrere in auto un saliscendi di strade sterrate.

Eppure, per Mohammed Habet Jabarin queste pietre, queste rocce, il sole dell’estate che brucia la pelle e il vento freddo dell’inverno che fa tremare la sua piccola casa coperta da lamiere, sono l’unica esistenza possibile, una immersione totale con la natura. È la vita che facevano prima di lui il padre e il nonno, è la vita che auspica per i figli.

«LA MIA FAMIGLIA possiede qui 300 dunum (30 ettari) di terra, lo dicono i documenti originali degli Ottomani, ma Israele dice che è terra pubblica e l’ha data ad Avigayil e le altre colonie che ha costruito intorno a noi», ci dice indicando con una mano l’ampia vallata. In alto, sulla collina di fronte, c’è un nuovo avamposto coloniale israeliano. Settimana dopo settimana diventa sempre più esteso. Prima un caravan, poi un capannone, due, tre e infine sono arrivate alcune case mobili.

«Tra noi e la colonia – prosegue Mohammed – gli israeliani hanno eretto una torretta di osservazione. Poi c’è quel camion di colore bianco che vedi là in fondo. Ci tengono sotto controllo, ogni minuto della nostra vita, seguono i nostri movimenti e quelli degli stranieri che vengono a darci sostegno».

Questa piccola e povera casa a Um Darit è un ostacolo per la congiunzione tra insediamenti e avamposti israeliani in questo punto della Cisgiordania mediorientale al centro di uno dei progetti più ampi di colonizzazione che vede i villaggi dell’area di Masafer Yatta – proclamata unilateralmente dalle autorità di occupazione un poligono di tiro – minacciati ogni giorno di demolizione.

«Ogni tanto i coloni – prosegue Mohammed – si avvicinano in sella ai quad (quadricicli a motore, ndr) per farci capire che comandano loro. E poi scattano intimidazioni e aggressioni. La nostra casa è stata demolita e abbiamo potuto ricostruirla solo grazie all’aiuto di amici palestinesi e internazionali».

Lo scorso 15 maggio verso il tramonto quattro coloni armati di Mitzpe Yair si sono presentati nella abitazione comportandosi come se fosse la loro. Hanno esplorato la casa, si sono seduti sui divani nel cortile e hanno intimato alla famiglia palestinese di preparare il caffè. Gli Habet Jabarin hanno chiamato la polizia israeliana – in questa parte della Cisgiordania occupata, la cosiddetta zona C, il controllo di sicurezza di Israele è totale – ma non si è presentato nessuno.

Non è stata la prima invasione della casa. In precedenza, avevano danneggiato il generatore autonomo di elettricità e i tubi dell’acqua. Lo stesso negli ultimi nove mesi è accaduto in varie zone della Cisgiordania, in particolare nel sud e nella Valle del Giordano: a Khallet al Hamra, Khirbet Ein a Rashash, Wadi a-Siq, Mleihat, Nassariyah, Khirbet Jibit, Baryat Tuqua, Khirbet Taybah, Atiriyah, Maktal Msalam, Khirbet a-Radhem, Khirbet Zanutah, Anizan, Baryat Hizma, Al-Qanoub, Khirbet Tana e Ein Sukhun.

NOMI che non dicono molto all’estero ma che rappresentano le radici, la cultura, la storia per decine e decine di famiglie palestinesi. Il gruppo Peace Now, che monitora le colonie, in un rapporto diffuso nelle ultime ore spiega che dopo il 7 ottobre il governo Netanyahu ha agito in più modi per favorire la futura annessione ufficiale della Cisgiordania a Israele e come i coloni e la loro aggressività siano un fattore centrale in questo progetto.

Um Darit resiste grazie anche alla presenza costante di attivisti stranieri e talvolta israeliani della sinistra non sionista, che frenano l’aggressività dei coloni. Gli Habet Jabarin hanno messo una piccola stanza a disposizione degli internazionali che appoggiano la loro determinazione a non abbandonare la terra alla quale appartengono.

«La presenza degli internazionali è un freno a violenze e abusi dei coloni che dal 7 ottobre sono anche autorizzati a indossare uniformi militari e spesso compiono le loro aggressioni e devastazioni in presenza di soldati. Ora sono i coloni a controllare i nostri documenti quando veniamo fermati», ci dice L.D., uno dei volontari stranieri che garantiscono un presidio permanente nelle località più a rischio. In gran parte passano per il villaggio di at-Tuwani, uno degli esempi più noti di sumud, di resilienza palestinese contro demolizioni ed espulsioni a sud di Hebron.

«Purtroppo – aggiunge L.D. – è sempre più difficile svolgere questo ruolo di protezione passiva delle comunità più a rischio. Alcuni di noi sono stati picchiati dai coloni». Nei giorni scorsi un giovane italiano è stato percosso e ferito. I coloni fanno ciò che vogliono incuranti delle (timide) sanzioni che alcuni di loro hanno subito da Usa, Europa e nei giorni scorsi dal Giappone. Dal 7 ottobre, riferisce l’Onu, almeno 1.260 palestinesi, tra cui 600 bambini, hanno dovuto abbandonare le loro case a causa di attacchi e aggressioni.

Um Al Khair, sempre nella zona di Masafer Yatta, nell’ultimo periodo è diventato il villaggio palestinese soggetto alle pressioni più forti, a demolizioni e violenze. A fine giugno un quarto delle case e delle strutture sono state distrutte perché «illegali» secondo l’amministrazione civile israeliana, che fa capo all’esercito. «Hanno abbattuto anche casa mia – ci dice Eid Hathalin, uno degli attivisti di Um Al Khair – Dopo i bulldozer militari sono arrivati gli attacchi dei coloni che hanno preso a bastonate gli abitanti facendo 10 feriti e hanno spruzzato gli occhi di alcune donne anziane con uno spray al peperoncino. Decine di persone sono rimaste senza casa, acqua ed elettricità».

LA VIOLENZA dei coloni e le demolizioni non sono una novità a Um Al Khair, fondata negli anni ’50 dai beduini della tribù dei Jahalin. Gli attacchi dei coloni, racconta Hathalin, sono iniziati negli anni ’80, dopo che Israele ha costruito l’insediamento di Carmel a pochi metri dal villaggio. Le grandi e belle case e i giardini rigogliosi di Carmel sono di fronte alle povere abitazioni palestinesi coperte da lamiere e alle macerie di quelle distrutte. I coloni hanno acqua abbondante, elettricità e tutti i servizi mentre ai palestinesi vengono distrutte le case.

«Questa è l’apartheid israeliana che il mondo deve riconoscere – afferma Hathalin – (Gli israeliani) dicono che costruiamo illegalmente ma gli illegali sono loro che occupano la Cisgiordania dal 1967». Gli attacchi prima del 7 ottobre erano sporadici, finché i coloni non hanno stabilito un avamposto, Roots Farm, sulla cima di una collina vicina.

Da allora la vita di Um al Khair è diventata un inferno. «Non c’è alcun pretesto per i soldati per allontanarci dalla nostra terra. Quindi quello che fanno i coloni è rendere la nostra vita la più dura possibile, pensano che alla fine ce ne andremo da soli – spiega Awni, un pastore – Abbattono le nostre case, ma noi le ricostruiamo. Verranno per abbatterle di nuovo e noi le ricostruiremo. Non andremo da nessuna parte».