In Iraq il Monte Shengal lo conoscono con un altro nome: Al Jabal Waid, la montagna sola. Cento chilometri di catena montuosa che si stagliano, quasi fuori luogo, dalla piana di Ninive, immenso deserto che dal confine siriano corre fino a Mosul. Se la piana è stata centro propulsivo delle prime civiltà mesopotamiche, il Monte Shengal è casa, alcova difensiva e laboratorio politico del popolo ezida. Esempio di etnoreligione, l’ezidismo ha origini antichissime: atavica confessione del popolo curdo, è parte di quei culti zoroastriani che per millenni furono maggioranza nella regione.

Mai convertiti ai monoteismi che fioriranno in Medio Oriente, gli ezidi hanno mantenuto pressoché intatto il culto originario, una filosofia fluida prima che una confessione dai rigidi dogmi, che fonda la propria cosmogonia nei quattro elementi, nel sole, la luna e le stelle.

Tacciati di satanismo per la figura dell’Angelo Pavone, il preferito da Dio e suo emissario sulla terra, gli ezidi hanno subito 74 ordini di massacro dagli imperi regionali, che ne tentarono una conversione con mire politiche: sottometterli allo Stato, costringerli a versare le tasse e indossare l’uniforme dell’esercito.

Se nel XII secolo sarà uno sheikh sufi, ‘Adi, a dogmatizzare l’ezidismo introducendo una divisione della società in caste tuttora operativa a Shengal, la montagna ha permesso una resistenza a oltranza e il permanere di un astatalismo clanistico che, se ha garantito la sopravvivenza dell’ezidismo, ha condotto a un crescente conservatorismo. Fino al massacro delll’Isis del 2014. Gli ezidi stavolta non oppongono una difesa passiva, ma un movimento di liberazione sostenuto dal Pkk e dalle unità curde del Rojava. Un «ritorno» alle origini fatto di autodifesa, autonomia fuori dallo Stato e protagonismo delle donne, nella cosmogonia ezida artefici della creazione dell’universo al fianco di Dio e oggi tornate prepotentemente al centro della società.