Raymond Carver, una sintassi spezzata al limite dell’afasia
Alias Domenica

Raymond Carver, una sintassi spezzata al limite dell’afasia

Il respiro della prosa/9 Tra i segni di interpunzione, in Raymond Carver il punto domina sovrano, spezza l’andamento della frase e la comprime all’interno dei suoi elementi essenziali
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 7 agosto 2022

Nel corso di una carriera letteraria cominciata molto tardi (la sua prima raccolta di racconti, Vuoi star zitta, per favore? fu pubblicata quando aveva poco meno di quarant’anni) ma accompagnata da un successo travolgente, Raymond Carver ha dovuto combattere con due tendenze interpretative che sentiva come inadeguate quando non irritanti: l’idea che la sua prosa rappresentasse una risposta alle astruserie metanarrative del postmoderno nel nome di un solido realismo o addirittura di una sorta di «spontaneismo», e quella, opposta e complementare, secondo la quale i suoi personaggi, nell’eccesso di passività e di desolazione con la quale affrontavano le piccole e grandi disgrazie delle loro vite incerte e nebulose, rasentassero invece una sorta di «irrealismo immobilista». Quanto all’etichetta di «padre del minimalismo», Carver la accettava con una certa insofferenza, sostenendo che il termine gli sembrava alludere a una «smallness» nella visione e nell’esecuzione in cui non si riconosceva.

La parola «economia» sembra adattarsi meglio ai racconti di Carver, come già a quelli degli autori – primi fra tutti Hemingway e Cechov – dei quali ha riconosciuto il magistero. Un’economia del racconto come dei dialoghi che non reca in sé la minima ombra di spontaneismo ed è semmai il frutto di un lavoro rigoroso di «asciugatura» e di riscrittura.

Anche venti stesure
Non è un caso se molti dei racconti più belli di Carver sono stati scritti e riscritti, apparendo in più versioni – spesso diversissime – tra una raccolta e l’altra (un caso su tutti: «Il bagno», pubblicato in Di cosa parliamo quando parliamo d’amore in una versione più breve e ulteriormente scorciata dall’editing di Gordon Lish, che diventa in Cattedrale «Una cosa piccola ma buona», forse il capolavoro della maturità carveriana, per padronanza di stile e complessità di architettura).

Carver lavora ai racconti per mesi e a volte per anni – e nella raccolta di Conversations pubblicata dalla University of Mississippi torna più volte sull’argomento; arriva ad accumulare venti stesure; toglie ma aggiunge anche elementi nuovi. E progressivamente dà respiro alle sue storie, non esita a cercare una maggiore complessità e luminosità, superando e assorbendo l’andamento episodico delle prime due raccolte per approdare al realismo cechoviano di Cattedrale, il libro che considerava il suo capolavoro. Se qualcosa sopravvive a questo costante processo di revisione e di arricchimento è la semplicità e l’asciuttezza dell’andamento frastico, la scansione del periodo per aggregazione di piccole sezioni, il ritmo scandito dal punto ben più che dalla virgola. Scelta, anche questa, non casuale, se è vero che già in una delle sue prime interviste, rilasciata a David Kohene nel 1978, Carver dichiarava: «Tutto è importante in un racconto, ogni parola, ogni segno di interpunzione. Credo tantissimo nell’economia all’interno di un’opera narrativa. Alcuni dei miei racconti, come “Vicini”, erano tre volte più lunghi nella prima stesura. Mi piace sul serio, il processo di riscrittura».

Tra i segni di interpunzione, il punto domina sovrano. Nella prosa di Carver prevale sulla virgola fino a comprimere la frase all’interno dei suoi elementi essenziali, soggetto-verbo-complemento, quando non a spezzarne l’andamento anche in contesti nei quali la virgola apparirebbe più logica e prevedibile, vista la continuità descrittiva o argomentativa che ha nel paragrafo la propria unità di misura. Rare dunque le virgole, rari i due punti, pressoché assenti il punto e virgola, ma anche il punto esclamativo (se non in qualche rarissimo esempio di dialogo) e i punti sospensivi.

L’importanza dell’incipit
L’effetto che ne deriva è quello di una riduzione all’osso della sintassi e insieme di uno spezzettamento del discorso che, nelle narrazioni in prima persona (nel complesso prevalenti, all’interno della produzione di Carver), sembra corrispondere alla volontà di rappresentare realisticamente una categoria di personaggi (gli stessi che hanno scandito per decenni la vita dell’autore) le cui difficoltà economiche e la cui progressiva disillusione si traducono in un’aridità espressiva che rasenta a tratti l’afasia.

Proprio partendo dalla distinzione tra racconti in terza e in prima persona è possibile evidenziare quanto questo processo di estremo asciugamento sia legato alla volontà di dare correttamente voce ai personaggi ben più che a una distinzione – da questo punto di vista inesistente – tra i primi testi narrativi e quelli della maturità. E poiché, nella stessa intervista a Koehne, Carver sottolineava l’importanza dell’incipit in un racconto, arrivando ad affermare che «bastano le prime righe perché un racconto prenda la direzione giusta o sia condannato al fallimento» è proprio a due incipit che si può fare riferimento per dar conto di come il ritmo della frase subisca variazioni non irrilevanti a seconda che a prendersi la scena sia la voce di un narratore o quella di un personaggio.

Agli esordi
Questo l’incipit di «Vicini», incluso nella prima raccolta di Carver, Vuoi star zitta, per favore?, nel quale una coppia si trova a dover badare all’appartamento dei suoi vicini e finisce per prenderne possesso e quasi abitarlo: «Bill e Arlene Miller erano una coppia felice. Ma ogni tanto avevano come l’impressione di essere i soli, nella loro cerchia, a essere rimasti in qualche modo tagliati fuori: Bill, perso nel suo lavoro di ragioniere, e Arlene, impegnata nei suoi compiti segretariali. Qualche volta ne discutevano, facendo dei confronti soprattutto con la vita dei loro vicini, Harriet e Jim Stone. Ai Miller pareva che gli Stone conducessero una vita più intensa e brillante della loro. Gli Stone andavano sempre a cena fuori, invitavano gente a casa o viaggiavano per tutto il paese quando Jim aveva degli impegni di lavoro».

L’andamento del paragrafo è piano, la scansione interna quasi tradizionale. Dopo la frase di apertura, secca e dichiarativa – soggetto, predicato nominale, aggettivo e punto fermo – la voce del narratore si lascia andare a una maggiore complessità, in modo da mettere in discussione l’assunto di partenza e conferirgli una valenza quasi ironica: come si vedrà nel corso del racconto, la felicità è un qualcosa che Bill e Arlene insistono ad affermare di possedere, nel momento stesso in cui ogni loro comportamento sembra alludere a un’insoddisfazione profonda e a un desiderio di fuga che trova nell’appartamento degli Stone la sua esotica valvola di sfogo. Le virgole prevalgono sul punto fermo; si affacciano i due punti (una delle rare volte in cui ciò accade, nei racconti di Carver) e perfino una subordinata temporale.

7 punti e 1 virgola
Questo, invece, l’incipit di «Vitamine», altra storia di una coppia fintamente felice contenuta in Cattedrale, la raccolta della piena maturità: «Io un lavoro ce l’avevo e Patti no. Lavoravo poche ore di notte in ospedale. Un lavoro da niente. Facevo qualcosa, timbravo il cartellino per otto ore e andavo a bere con le infermiere. Dopo un po’ Patti ha voluto mettersi a lavorare. Diceva che aveva bisogno di un lavoro per la propria dignità. E così si mise a vendere multivitaminici porta a porta». Un paragrafo con sette punti fermi e una virgola; una secchezza che rasenta l’afasia; una voce distaccata e apatica, al punto di descrivere il proprio mestiere rinunciando al verbo, e approdando alla sintesi estrema delle parole «un lavoro da niente». E ancora: la ripetizione delle parole «lavoro», «lavorare» e «lavoravo» (cinque volte), a sottolineare quello che sarà il (falso) tema del racconto rispetto a quelli più profondi: la dipendenza dall’alcol, il tradimento, il fallimento di una coppia.

Una lingua e una punteggiatura che, va infine sottolineato, sono quanto di più lontano dalla spontaneità e quanto di più costruito e studiato. Vale per Carver ciò che lui stesso diceva di Hemingway: «La gente dice sempre che Hemingway aveva un grande orecchio per il dialogo, ed è vero. Ma nessuno ha mai parlato nella vita reale come parlano i personaggi di Hemingway. Almeno, non prima di aver letto Hemingway. O di aver letto Carver.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento