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«Raid turchi e kamikaze Isis. Ma la nostra porta è aperta al dialogo»

«Raid turchi e kamikaze Isis. Ma la nostra porta è aperta al dialogo»Raid sulla città siriana di Tal Abyad visti dal confine turco – Afp

Voci da Rojava Il racconto del secondo giorno dell'aggressione turca: lo Stato islamico rialza la testa, l'aviazione di Ankara colpisce gli ospedali e la ricostruzione delle comunità si ferma. Ma Rojava crede ancora nella diplomazia per salvare il confederalismo democratico

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 11 ottobre 2019

Domenica scorsa Dalbr Iomma Issa, la comandante curda delle Ypj, le unità di difesa femminili del nord della Siria, era a Roma alla conferenza sul confederalismo democratico organizzata da Uiki, Rete Kurdistan e VIII Municipio.

Poche ore prima dell’annuncio dell’imminente offensiva turca su Rojava, ci parlava della lenta ricostruzione della vita quotidiana dopo la cacciata dell’Isis: «Abbiamo cominciato a ricostruire le comunità, per far tornare chi era fuggito. Ma siamo ancora in stato di allerta, dobbiamo ora difendere i confini che abbiamo liberato».

Quel momento è arrivato e la ricostruzione fermata dall’aggressione dell’esercito turco e delle migliaia di pretoriani delle opposizioni islamiste siriane. Ieri, secondo giorno di Operation Peace Spring, i bombardamenti sono proseguiti: «Lungo tutto il confine sono continuati i raid e i colpi di artiglieria pesante – ci dice al telefono Salih Muslim, portavoce del Pyd, il Kurdish Democratic Union Party – L’aviazione turca ha colpito anche l’area intorno alla prigione di Qamishlo, dove sono detenuti i prigionieri dell’Isis. Ma non ci sono state fughe. Sul terreno si resiste a Tal Abyad, dove l’offensiva terrestre è stata per ora bloccata dalle Ypg/Ypj».

«La scorsa notte era apparsa più calma, ma ieri le bombe hanno colpito di nuovo Tal Abyad e Qamishlo, anche se meno pesanti del giorno prima quando è stato duramente attaccato il quartiere cristiano». Cecilia ci parla da Rojava. Studentessa di medicina, è lì come volontaria per dare supporto alla ricostruzione delle strutture sanitarie e coordinarne l’attività.

«È stato colpito l’ospedale di Sere Kaniye (Ras al Ain, ndr) e quello di Tal Abyad è stato chiuso, sul confine. Il trasferimento dei pazienti verso le zone interne è difficile».

La frontiera nord con la Turchia è già zona di guerra. Le notizie che arrivano parlano di «una smobilitazione del muro di frontiera», costruito da Ankara per impedire ai rifugiati di scappare dalla guerra civile, così da facilitare le incursioni via terra. Quelle che hanno come protagonisti 14mila miliziani islamisti e dell’Esercito libero siriano, opposizioni al governo Assad e stampella armata turca.

«Gruppi di jihadisti sono entrati a Manbij, a ovest dell’Eufrate – continua Cecilia – e a Raqqa la notte scorsa ci sono stati due attentati suicidi. Nel campo di Al Hol, dove sono detenuti jihadisti dell’Isis e le loro famiglie, sono scoppiate rivolte, molte tende sono state bruciate».

L’Isis rialza la testa, mai scomparso ma pronto a riemergere con cellule nascoste dentro le città liberate dalle Ypg e le Ypj, da Raqqa a Deir Ezzor.

A reagire è la popolazione, capace di mobilitarsi subito perché quella mobilitazione sociale, culturale, politica e militare è realtà dal 2011. Molti civili prendono le armi, altri fanno da scudo umano.

Fanno da sé dopo il voltafaccia degli Stati uniti. Che continuano però ad avere i propri uomini sul territorio: «I marines sono stati smobilitati solo in due punti, alla frontiera, a Ras al Ain e Tal Abyad ma sono ancora presenti nelle basi più interne – ci spiega Anwar Muslem, ex sindaco di Kobane e oggi co-presidente della regione Eufrate – Le città da cui si sono ritirati sono quelle subito bombardate dalla Turchia. Erdogan vuole ripulire il nord della Siria, per questo ha mandato in prima fila i jihadisti dell’Esl e l’ex al-Nusra: vuole realizzare un genocidio. Per fermarli abbiamo bisogno di chiunque voglia aiutarci. La nostra porta è aperta alla Russia e al governo di Damasco, con cui abbiamo sempre dialogato. Ma per ora non abbiamo ricevuto risposte».

«La Turchia ci minacciava da tempo, vuole cancellare il nostro modello democratico. Per questo per anni abbiamo chiesto la creazione di una vera zona cuscinetto che ci proteggesse, ma la coalizione a guida Usa non ha mai voluto realizzarla». È un’altra zona cuscinetto che Washington ha autorizzato, a fine agosto alla Turchia, primo passo verso l’attacco.

Rojava se lo aspettava, ma non tanto presto: «Gli Stati uniti non sono mai stati considerati alleati affidabili, ma solo un sostegno militare – Cecilia riporta le voci dei curdi, gli assiri, gli arabi che hanno costruito e modellato il confederalismo democratico a Rojava – Nessuno si aspettava un’aggressione così rapida perché era in fase di definizione l’accordo Usa-Turchia sulla safe zone. Quella “zona sicura” non è stata mai accettata pienamente dalla Federazione del Nord, ma era stata agevolata nell’idea che il dialogo pagasse. Si parlava di un incontro tra Erdogan e Trump a novembre e della reale smobilitazione delle truppe, non si immaginava che sarebbe accaduto qualcosa prima».

Tradita la soluzione diplomatica, l’attacco è arrivato a sorpresa. E la preparazione in atto, l’evacuazione delle città di confine e delle cliniche e la riorganizzazione dell’apparato militare, è evaporata.

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