A inizio aprile la lettera di un medico israeliano di stanza nel centro di detenzione di Sde Teiman aveva confermato le testimonianze di decine di palestinesi di Gaza detenuti dal 7 ottobre e poi riportati nella Striscia. Condizioni di vita disumane: 24 ore su 24 con braccia e gambe legate a catene di ferro, bendati, alimentati con le cannucce e costretti a urinare e defecare nei pannolini. Il medico, anonimo, ha raccontato di amputazioni rese necessarie per le ferite dovute alle catene.

QUELLA DENUNCIA ha tracciato le linee di una politica strutturale, a completare il quadro di detenzioni di massa in corso a Gaza (come in Cisgiordania) e alle immagini – fornite dallo stesso esercito – di decine di uomini, giovani e adulti, spogliati, legati e bendati nello stadio Yarmouk tramutato in un centro di detenzione, o lungo le strade del nord dopo l’inizio dell’offensiva via terra.

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Lunedì l’organizzazione al Mezan – ong di Gaza tra le più stimate, parte del team legale che partecipa alla raccolta di documentazione per il fascicolo consegnato alla Corte penale internazionale – ha dato i numeri: secondo indagini sul campo, sarebbero almeno 3mila i gazawi arrestati dal 7 ottobre dall’esercito israeliano, un numero enorme che si aggiunge agli oltre 8mila nuovi prigionieri politici in Cisgiordania.

«Tra loro donne, bambini, anziani, medici, infermieri, insegnanti, giornalisti – si legge nel rapporto – Questa aggressiva campagna di detenzione non ha precedenti, con detenuti soggetti a diverse forme di crudeltà, torture, trattamenti disumani e degradanti». Avviene al di fuori della stessa legge israeliana, aggiunge al-Mezan, senza supervisione giudiziaria.

Dei 3mila prigionieri, circa 1.650 sono detenuti nel quadro della Legge sui Combattenti illegali del 2002 che riconosce al capo di stato maggiore il potere di ordinare incarcerazioni senza processo. Di loro non si sa nulla, solo che sono detenuti in totale isolamento nelle carceri di Nafha e del Negev, senza poter incontrare un avvocato. I legali di al Mezan sono riusciti a visitarne una 40ina «dopo che la procura israeliana aveva esaurito tutte le tempistiche legali per impedirgli di incontrare i prigionieri». Hanno parlato di torture durante gli interrogatori, poco cibo da spartire, materassi disponibili solo quattro ore a notte: «L’avvocato ha sottolineato che in vent’anni di lavoro con i detenuti non aveva mai visto condizioni così terribili».

TANTI SONO tornati a Gaza, dopo settimane di detenzione. Da un inferno all’altro. Ieri, mentre la stampa internazionale si concentrava sull’attesa risposta israeliana all’attacco iraniano di sabato notte, nella Striscia il bilancio degli uccisi in 193 giorni di operazione Spada di Ferro saliva a 33.843. Le vittime accertate: se ne stimano almeno 10mila sotto le macerie o nelle fosse comuni.

Oltre 10mila vittime sono donne, scriveva ieri in un rapporto Un Women, di cui 6mila madri che hanno lasciato orfani 19mila bambini. Loro, i bambini, sono l’altra fetta di popolazione che paga il prezzo più caro dell’offensiva: oltre 13mila uccisi e altrettanti feriti, ha detto ieri Unicef, significa che ogni dieci minuti un minore a Gaza perde la vita o resta ferito, «portandosi addosso un’eccezionale parte delle cicatrici di questa guerra».

Cicatrici fisiche e psicologiche che non si riparano, soprattutto se il sistema sanitario è collasso. Ieri l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) smentiva le dichiarazioni statunitensi e israeliane: non ci sono stati cambiamenti significati nella quantità di aiuti umanitari in ingresso a Gaza.

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Ad aprile la media è di 181 camion al giorno (erano 500 prima del 7 ottobre e in una situazione nemmeno paragonabile alla crisi umanitaria di oggi). L’Unrwa, continua, non è in grado di raggiungere il nord di Gaza in piena carestia dal 23 gennaio, perché bloccata dall’esercito israeliano.

PROSEGUE anche l’offensiva militare. Negli ultimi giorni si accavallano analisi e commenti sulla stampa internazionale che vedono in Rafah la vittima sacrificale: via libera occidentale all’invasione della città-rifugio a 1,5 milioni di sfollati in cambio di un attacco all’Iran meno pesante di quanto vorrebbe Netanyahu, che un’occasione così la aspetta da tanto.

Nel frattempo le bombe e i colpi di artiglieria cadono ovunque. A Beit Hanoun nel mirino è finita una scuola che ospita sfollati, dopo ordini di evacuazione gridati dai soldati nei megafoni, e a Gaza City un’auto della polizia che scortava aiuti, otto uccisi. Nel campo profughi di Jabaliya l’aviazione ha distrutto un’altra moschea (600 quelle in macerie), uccidendo una persona e ferendone undici. E poi al-Maghazi: un drone ha ammazzato undici bambini in un parco giochi.