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Qui si mangia male

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Cibo Tredici «biografie alimentari ed esistenziali» fanno da perno al saggio di Andrea Segrè e Ilaria Pertot pubblicato da Baldini e Castoldi

Pubblicato circa 14 ore faEdizione del 31 ottobre 2024

Il mito della dieta mediterranea patrimonio immateriale dell’umanità continua a essere sbandierato, ma per la maggior parte degli italiani non si traduce in pratica quotidiana. Certo, si vive in una «iperbolla alimentare», piena di chef stellati e senza stelle, food blogger, influencer, strategie di marketing. Ma la cruda realtà è un’altra. Fatta (anche) di carenze nutrizionali ed eccessi alimentari. Il mangiar male.

SI LEGGONO D’UN FIATO LE TREDICI «biografie alimentari ed esistenziali» che fanno da perno al saggio La spesa nel carrello degli altri. L’Italia e l’impoverimento alimentare (Baldini + Castoldi, 2024, prefazione del cardinale Zuppi). Gli autori, l’economista Andrea Segrè – noto per l’impegno sui temi della prevenzione dello spreco alimentare – e la ricercatrice Ilaria Pertot, hanno condotto un’indagine capillare su chi in Italia «mangia male» e sui fattori che stanno ampliando questa triste platea.

L’IMPOVERIMENTO ALIMENTARE è una condizione squilibrata, di natura varia e complessa, che va ben oltre l’aspetto economico, ovvero l’accesso al cibo. Semplificando: sì, i poveri mangiano male, il rincaro dei prezzi li colpisce di più e l’indice di insicurezza alimentare si è impennato soprattutto al Sud (+26%) e nelle zone rurali (+66%), le disparità alimentari peggiorano. Ma i ricchi non mangiano meglio. Siamo in una sorta di povertà in senso allargato. Nella nota metodologica che chiude il saggio, gli autori spiegano che, per illustrare i vecchi e i nuovi «poveri alimentari», si sono «ispirati all’approccio storiografico di Giovanni Levi e Carlo Ginzburg: la microstoria».

I DATI E I RAPPORTI (in particolare di Istat, Caritas, Osservatorio Waste Watcher International), sono essenziali ma vanno calati nel reale. Dunque, è stata condotta un’analisi dettagliata di oltre duemila casi, osservati nell’atto di acquistare il cibo in vari contesti: centri commerciali, ipermercati, supermercati, discount, minimarket, minimarket etnici, negozi di prossimità, mercati rionali, mercati contadini, mense studentesche, distributori automatici, consegne a domicilio. Grazie a questo percorso «investigativo» e sulla base dei comportamenti maggiormente ripetuti tra quelli che si discostavano dalle linee guida per una sana alimentazione, sono stati costruiti 13 profili, situazioni tipo, trasformati poi in vivide micro-storie. Una bussola per ricostruire «la storia che stiamo vivendo».

IN ITALIA EMERGONO TRE SITUAZIONI. Per chi vive in povertà assoluta e necessita di assistenza alimentare, l’approccio nutrizionale è principalmente quantitativo: placare la fame. Chi invece sperimenta una povertà relativa (determinata dal reddito basso o precario e da pensioni risicate, con variabili come la presenza di minori, il genere, la cittadinanza, l’affitto, la solitudine, la povertà educativa), di fronte al rincaro consuma cibi poco nutrienti e di bassa qualità, acquista prodotti che deperiscono in fretta, è tendenzialmente in sovrappeso od obeso. Ma cadono in queste trappole anche individui dei ceti medi e medio-alti.

SI MANGIA MALE PER TANTE RAGIONI, oltre a quelle economiche: la (mal)educazione alimentare fin dall’infanzia, i disturbi del comportamento alimentare, l’impatto della ristorazione collettiva in situazioni variegate. E si spreca (a livello domestico ben 1,7 milioni di tonnellate, oltre 7 miliardi di euro secondo i dati del Wwi) per: lo scarso valore attribuito al cibo, le promozioni, l’ostentazione, la malnutrizione per eccesso (il cosiddetto «spreco metabolico»). Le indagini di Wwi svolte in vari paesi, fra i quali l’Italia, mostrano negli ultimi anni una tendenza mai notata prima e per certi versi contro-intuitiva: i ceti meno abbienti della popolazione, quelli più colpiti dalla crisi economica e dall’inflazione alimentare, paradossalmente gettano via più cibo rispetto agli altri. L’abbassamento della qualità dei prodotti alimentari acquistati (ad esempio ortofrutta in offerta, prossima al deterioramento), porta a uno spreco quantitativo, mentre il consumo di alimenti poco costosi ma di basso valore nutrizionale si riflette sul peggioramento della dieta e quindi della salute.

COME AGIRE? LO IUS CIBI, il diritto universale a un’alimentazione sufficiente, nutriente, culturalmente compatibile, riconosciuto da numerose convenzioni internazionali e costituzioni nazionali, manca di attuazione. Sono davvero lontani gli obiettivi dell’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile (i primi due sono sconfiggere la povertà e la fame), occorre mobilitarsi tutti – dalle istituzioni nazionali ai Comuni, alle famiglie e alle scuole – attraverso interventi di medio e lungo termine che affrontino strutturalmente il generale impoverimento della società italiana, verso la giustizia alimentare. Ma forse bisogna cambiare prospettiva e riconoscere lo ius cibi anzitutto a livello locale, dove il suo rispetto può realizzarsi in concreto.

IL CIBO COME BENE (IN) COMUNE: per gli autori, il luogo nel quale gli alimenti possono essere portati, almeno in parte, «fuori dalle logiche del mercato e dunque dell’accesso (economico e fisico)» è proprio il comune in senso amministrativo. Numerosi sono già gli esempi concreti: l’autoproduzione negli orti urbani e periurbani, con i suoi benefici; il recupero e la redistribuzione degli alimenti in eccedenza attraverso la donazione; la colletta alimentare.

MA VA SVILUPPATO UN «TAVOLO della democrazia alimentare», aperto a tutti (attori istituzionali, associazioni, gruppi di acquisto, cittadini…), per condividere principi e azioni della politica locale del cibo, stipulando un «patto di cittadinanza alimentare»: cosa produrre e consumare a livello locale, promuovendo nel contempo pratiche agro-ecologiche, filiere corte, mercati locali e contadini. Con ricadute positive sull’altra metà del cielo alimentare: quegli agricoltori che producono nutrimento e sono custodi dell’ambiente.

E VA MESSA AL CENTRO L’EDUCAZIONE alimentare (a partire dalle mense scolastiche) anche per fornire ai futuri adulti le conoscenze necessarie a livello di acquisti, conservazione, uso efficiente. «L’adozione di una politica alimentare urbana riconosciuta e condivisa dalla stessa comunità di riferimento e attuabile con gli strumenti già disponibili a livello istituzionale e amministrativo locale avrebbe il vantaggio non solo di rendere meno vulnerabili i poveri alimentari, cosa che già sarebbe un risultato importante; ma aiuterebbe anche a intercettare e contrastare la condizione di impoverimento alimentare».

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