Questa desolazione che ha sostituito la morale classica
Il museo circolare di Gian Enzo Sperone: Andy Warhol «1965, nella mia galleria torinese la prima mostra della pop star in Italia: presentata da Luigi Carluccio. Avevo 26 anni, provinciale catapultato in un’estetica che incrinava tutte le mie certezze, ma mi iniettava entusiasmo... Warhol non mandò segnali, Torino non era nella mappa del glamour: l’avrei incontrato nel ’75 a New York»
Il museo circolare di Gian Enzo Sperone: Andy Warhol «1965, nella mia galleria torinese la prima mostra della pop star in Italia: presentata da Luigi Carluccio. Avevo 26 anni, provinciale catapultato in un’estetica che incrinava tutte le mie certezze, ma mi iniettava entusiasmo... Warhol non mandò segnali, Torino non era nella mappa del glamour: l’avrei incontrato nel ’75 a New York»
Ho fatto la prima mostra di Andy Warhol nella mia galleria di Torino, nel centro storico. Avevo 26 anni ed ero appena arrivato dalla provincia per trovarmi subito catapultato in un nuovo mondo estetico come la Pop Art americana, che incrinava tutte le mie certezze, ma mi iniettava un entusiasmo che avrei provato, anni dopo, solo con l’Arte Povera di Merz, Boetti, Zorio.
Due anni prima, accompagnato da Michelangelo Pistoletto che aveva sei anni più di me e non era un provinciale, ero stato a Parigi, dove c’era allora la costituenda succursale europea per la Pop americana: era la galleria di Ileana Sonnabend, appena divorziata da Leo Castelli, l’ispirato gallerista di origini mitteleuropee che «comandava» da New York. Leo, uomo di grande cultura e di modi signorili, aveva preso a ben volermi vedendo forse in me lo stesso sacro fuoco che aveva infiammato la sua giovinezza e improntato tutta la sua vita.
Egli riconosceva allora il mio «mentore» Michelangelo Pistoletto come l’unico artista italiano e forse europeo in grado di reggere il confronto con l’armata Pop, essendo Yves Klein, e Arman, dei Nouveaux Réalistes, guidati da un noto critico anti-americano, Pierre Restany.
Questa mostra di Warhol, la prima in Italia, venne presentata in catalogo (sarebbe meglio dire brochure) da Luigi Carluccio, all’epoca deus ex machina della critica d’arte torinese nonché ideatore, alla fine degli anni cinquanta, di mostre potenti come quella di Francis Bacon (prima mostra in Italia) e poi, in seguito, Le Muse Inquietanti alla Galleria d’Arte Moderna (GAM). Carluccio, carattere non facile, un po’ pigro e snob, né incline ai baratti, aveva subito intuito la forza prorompente insita nell’opera di Andy Warhol; come tutte le persone di spessore intellettuale si era prestato a studiare un’estetica che gli era tuttavia piuttosto estranea.
Carluccio era grande amico di Alberto Giacometti e amava Giorgio De Chirico. Per l’occasione Warhol non mandò alcun segnale da New York; Torino non era nella mappa dei luoghi glamour e io ero uno scadente comunicatore.
L’avrei poi incontrato nel 1975, nella mia galleria newyorkese, dove era venuto a firmare alcune sue opere dei primi anni sessanta, gigantesche serigrafie su tela che avevo comprato dieci anni prima a Parigi da Ileana Sonnabend.
Lo accompagnava Mick Jagger, sorridente e riservatissimo.
Warhol desiderava essere una macchina e il suo era un mondo immaginario che includeva la pubblicità, le più banali immagini prese dagli scaffali di un supermercato e foto scelte a caso dai rotocalchi; la più ovvia sfilza di prodotti da cucina come le laide Campbell Soup.
Tutto ciò sarebbe diventato oggetto di quadri e sculture mai immaginati da nessuno prima.
Dunque non solo la fine del mondo classico, e dell’esplorazione della mente e della pancia cara alla cultura dell’Informale, ma una vera rivoluzione, con intenti narrativi, che trasformava in arte qualunque cosa non implicasse un’espressività individuale.
Intollerante di ogni tic artistico del Novecento, Warhol si è imposto come il Robespierre dell’arte del secondo dopoguerra. Fu vera gloria? Ai posteri…
Io penso sia stato, insieme a Picasso, Duchamp e De Chirico, uno dei geni dell’arte del nostro tempo, non fosse altro che per la capacità di assurgere a simbolo di un cambiamento estetico radicale poi diffusissimo; tant’è che se uno scendesse in strada e facesse una statistica dei nomi più ricorrenti nelle conversazioni dei giovani, verrebbe senz’altro fuori che, dopo i calciatori, i cantanti, i fashion designers e i dittatori, il nome più noto è proprio l’artista Andy Warhol, la cui estetica è risultata poi quella vincente, proprio come il rock and roll e lo stile della pubblicità televisiva oggi dominante.
Questo sognano anche i migranti che scappando dalla loro miseria rischiano la vita senza sapere, ahimè, di entrare in un mondo occidentale patinato, taroccato e illusorio; una delle grandi falsificazioni del nostro tempo.
Il mio quadro di Warhol Duty Free rappresenta questa desolazione che volenti o nolenti ha sostituito la religione e purtroppo la morale classica, cioè tutto il mondo di idee di quelli che ci hanno preceduto.
Dopo essere sopravvissuto alla pistolettata di una fanatica oltranzista newyorkese, Warhol ha sviluppato qualche anticorpo rispetto al concetto di voler essere inespressivo come una macchina. Ha pubblicato infatti un tomo ponderoso contenente i suoi Diari, ispirato suo malgrado da un classico del Cinquecento, il Diario di Jacopo Pontormo: non raggiunge livelli di sincerità apprezzabili e segna l’impossibilità di liberarsi dal mondo pop.
Io, che da anni, prima sommessamente e poi più rumorosamente, mi sono tuffato come collezionista anche nel mondo degli antichi pittori, posso azzardare questa battuta: mi sono liberato dallo spirito pop.
Mica male!
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