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Quel giorno, il miracolo e la festa della ritrovata libertà

Quel giorno, il miracolo e la festa della ritrovata libertàPartigiani in Valchiusella nell'inverno 1944-1945 – Archivio Istoreto

Buon 25 aprile Alla Risiera di San Sabba gli eredi delle vittime sfrattati per far posto agli eredi degli oppressori. A Verona una mozione di maggioranza “contro il 25 aprile”. A Savona il […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 25 aprile 2019

Alla Risiera di San Sabba gli eredi delle vittime sfrattati per far posto agli eredi degli oppressori. A Verona una mozione di maggioranza “contro il 25 aprile”. A Savona il corteo celebrativo deviato per non dar fastidio a quelli di Casa Pound. In mezza Italia le bande nere-verdi, dietro il loro “capitano” in missione a Corleone, disertano le celebrazioni della Liberazione. In fondo è giusto così: non è la loro festa! Per capirlo basta riascoltare le parole di quando le cose erano ancora chiare perché vive nella mente dei protagonisti.

«Dopo venti anni di regime e dopo cinque di guerra, eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Quel giorno, o amici, abbiamo vissuto una tra le esperienze più belle che all’uomo sia dato di provare: il miracolo della libertà». Così diceva Norberto Bobbio il 25 aprile del ‘57 a una piazza gremita ricordando le ragioni della festa ma, soprattutto, evocando un’esperienza vissuta: il ritorno all’«umanità» – individuale e collettiva -, a un’umanità liberamente vissuta, da parte di un popolo che quell’umanità l’aveva perduta, in vent’anni di servitù e conformismo, perversione e ipocrisia, adesione fanatica o silenzio complice, nell’accettazione più o meno partecipata di un regime che della disumanità – del culto e della pratica dell’inumano – aveva invece fatto il proprio emblema.

CERTO, NEL GIORNO della Liberazione ci sono molte «vittorie» da celebrare. C’è una vittoria militare: la liberazione da un nemico che sembrava invincibile. C’è una vittoria politica, il riscatto di un Paese, l’Italia, distrutto materialmente squalificato politicamente e infine rimesso all’onor del mondo dal sacrificio di quei duecentomila combattenti. E c’è, fondamentale, una vittoria morale, espressa nella parola «scelta», nel fatto che in quel punto morto della storia che fu l’8 settembre del ‘43 ci furono uomini e donne che scelsero, senza ordini superiori né obblighi formali, in un atto costituente di insubordinazione collettiva in nome di valori. Ma c’è, nella Resistenza e nel suo esito con la Liberazione, una vittoria che le sintetizza tutte, ed è la vittoria dell’Umano sull’Inumano. L’affermazione di un umanesimo testimoniato col sacrificio personale sulla disumanizzazione ostentata da regimi ed eserciti che marciavano sotto le bandiere della distruzione dell’Umano.

LA LOTTA di liberazione fu una Guerra per l’Umanità (è, lo so, un ossimoro, perché la guerra non ha praticamente mai qualcosa di umano ma in questo caso è la realtà) nel senso che fu combattuta contro chi si proponeva la cancellazione dell’umanità dagli uomini. La riduzione a cose. L’annientamento totale del proprio simile riconfigurato come «altro», come non-uomo. Fu la guerra – vinta – contro gli autori di Auschwitz e del «male assoluto» che vi si consumò in nome di un principio suprematista e razzista che divideva il genere umano in eletti e reietti, signori e schiavi, Noi (i «primi») e Altri (il nulla, le cose da usare o distruggere a piacere).

CONTRO QUELLE Autorità infami, contro quelle Leggi perverse, contro gli ordini degli Uomini della Provvidenza e i Bandi dei loro scherani i partigiani pronunciarono un fragoroso NO a riscattare i troppi SI che nel ventennio precedente erano stati pronunciati. La Resistenza fu – bisogna ripeterlo perché in quello sta la sua «anima» – un clamoroso atto di disobbedienza di massa (il primo veramente popolare) in un Paese abituato al conformistico seguire la corrente, catartico nella sua radicalità. I partigiani non si limitarono a combattere. Si trasformarono in passeur per favorire il riparo in Svizzera delle vittime della persecuzione razziale o in traghettatori verso le vie di fuga, tentarono, là dove nella forma più brutale il naturale sentimento di solidarietà umana era negato, di restaurarne il senso. E la pratica.

QUESTO DOBBIAMO ricordare nel giorno della Festa, perché non risulti beffa a noi stessi nella realtà che ci circonda: questo atto di disobbedienza costituente a Leggi e Autorità ingiuste, da cui è nata la nostra nuova legge fondamentale, una Costituzione fatta da uomini (finalmente) liberi per uomini (universalmente) liberi. Lo dobbiamo ricordare perché il fantasma dell’inumano è tornato ad aggirarsi per l’Europa, e sciaguratamente in Italia. Infesta le sale del Governo, occupa ministeri importanti, vitali, chiude porti, costruisce muri, pronuncia bestemmie pretendendo di tornare a separare «uomini» e «no» e a ri-proclamare nefasti primati («prima gli italiani»), spietate messe al bando, reiterati apartheid.

È UN BENE – sinceramente «è un bene»! – che Matteo Salvini si tenga alla larga da quella data e da questa festa, lui e le sue felpe abusate. Perché quando dice che non vuol partecipare al «derby tra fascisti e comunisti» mostra, è vero, tutta la sua ignoranza storica, ma se anche sapesse di cosa si parla, a maggior ragione dovrebbe disertarlo quel ricordo, perché da esso gli viene, forte e chiaro, il monito «de te fabula narratur»: della sua ostentazione del disumano, della pedagogia del negativo che ogni giorno mette in scena con le sue esternazioni da trivio, delle sue pratiche di segregazione e deportazione, del genocidio a bassa intensità che sulla costa meridionale del Mare Nostrum i suoi sodali libici mettono in atto… In una parola del suo essere interprete di quel ritorno dell’inumano che era già stato sconfitto il 25 aprile del 1945, ma non sradicato dagli strati più bassi dell’autobiografia della nazione.

È PROBABILE che nella sua sconfinata ignoranza il ministro di polizia e quelli che la pensano come lui considerino i partigiani gentaglia, balordi e spostati, oppure fanatici di un mito sociale depravato. A tutti costoro possiamo replicare con l’Italo Calvino de Il sentiero dei nidi di ragno, il quale così rispose a quanti già allora lavoravano alla denigrazione di quei combattenti per la libertà: «D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere».

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