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Quel che resta del Mostro

Quel che resta del Mostro

Italian tabloid Trentanove anni dopo l’ultimo omicidio del Mostro di Firenze, da nuove analisi emerge una traccia di dna sconosciuto e i dietrologi si scatenano. Ma in realtà non c’è nessun fantomatico Mister X

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 11 agosto 2024

8 settembre 1985. Il mostro di Firenze colpisce per la settima volta, l’ultima, sulla radura di via Scopeti, nei dintorni di San Casciano, trucidando due turisti francesi accampati in tenda, Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili.
Passano trent’anni, scanditi da indagini giuste e sbagliate, processi solenni e buffi insieme, e da più di una dozzina tra sospettati, indagati e imputati, condannati o assolti, quando nel 2015 inaspettatamente gli inquirenti rinvengono una palla di proiettile infilata nel cuscino dei francesi. Il reperto – nominato V3 – è maneggiato con la massima cura, o almeno così verrà detto, e poi affidato all’esperto balistico Paride Minervini, la cui perizia confermerà ciò che tutti già sospettavano: quella palla è stata esplosa dalla Beretta del Mostro. Nessuna seconda pistola, e nessun colpo di scena. Fino a quando, nel 2018, il genetista Ugo Ricci verifica l’esistenza di una traccia di dna sul reperto.

LA SEQUENZA – Ignoto 3 – viene confrontata con quelle, già raccolte, appartenenti ad alcuni personaggi travolti dalla vicenda, ma nessuna di queste regala il tanto agognato match. Anzi, Ricci si accorge che il dna ignoto appartiene proprio a Minervini, e che dunque quella traccia è dovuta a una banale contaminazione. Fine della vicenda? No. Perché gli esami di Ricci, pur rilevandola, non si soffermano su una «sottotraccia» di dna, mischiata a quella di Minervini, che, nel disinteresse generale, rimane un promettentissimo potenziale Ignoto 4.

AGOSTO 2024. L’avvocato Vieri Adriani, difensore delle famiglie Mauriot e Kraveichvili, affida a Lorenzo Iovino, ematologo e ricercatore scientifico del Fred Hutch Cancer Center e dell’università dello Stato di Washington, a Seattle, l’incarico di rianalizzare le conclusioni di Ricci. Iovino, basandosi sul lavoro del genetista, isola Ignoto 4, e verifica la sua compatibilità col dna di alcuni indagati. Il risultato è che questo non corrisponde né al collaboratore di Minervini né a quello di altri sospettati e condannati. Ma, soprattutto, Iovino si accorge che il dna di Ignoto 4 presenta alcuni alleli in comune con tracce di dna, già riscontrate da Ricci, su un bossolo rinvenuto sulla scena del crimine di Giogoli (settembre 1983) e su uno trovato a Vicchio (luglio 1984).

POICHÉ queste altre tracce sembrano essersi depositate prima del 2015, anno della contaminazione di V3, è plausibile che quel dna appartenga a qualcuno che ha maneggiato i proiettili in un momento antecedente lo sparo, dunque non per periziarli; ad esempio, per consegnarli agli assassini, o magari proprio per incamerarli nella Beretta. Per coloro che non sono avvezzi alle armi e alle munizioni, va specificato che, mentre il bossolo viene espulso dalla pistola senza subire alcuno stress in grado di cancellare il dna, la palla di proiettile, con l’esplosione del colpo, attraversa a gran velocità la canna ed è sottoposta a temperature altissime. Questi fattori incidono sulla sopravvivenzadel dna? Sul punto, la letteratura scientifica non è univoca, ma secondo un orientamento non minoritario una traccia di dna può sopravvivere anche al calore di uno sparo. A maggior ragione se si tiene conto che l’ogiva, per via della sua forma, non aderisce alle pareti della canna; e anche per questo motivo non può essere scartata l’ipotesi che la traccia si sia depositata su V3 prima dell’esplosione del colpo (dunque non necessariamente in sede di perizia, come sostengono i tifosi della contaminazione). In attesa che da Seattle arrivino i risultati di eventuali nuove ricerche sul profilo di Ignoto 4, sulla base di quanto emerso sin qui, è però possibile fare alcune puntualizzazioni e caute osservazioni preliminari.

ADRIANI E IOVINO non hanno mai dichiarato, come invece è stato sbadatamente riportato, di aver trovato il dna dell’assassino. Anzi, la loro meritoria battaglia professionale è volta a stimolare nuove indagini sugli altri profili di dna ignoti evidenziati a suo tempo da Ricci – come, ad esempio, i due, entrambi maschili e relativi al delitto di Scopeti, trovati sul pantalone di Kraveichvili e su un guanto da chirurgo abbandonato per terra – proprio per escludere o confermare possibili, ma mai certe, contaminazioni. Inoltre, per verificare la presenza di ulteriori tracce di dna di individui ignoti, o magari noti, i due professionisti hanno annunciato di voler svolgere un ruolo propulsivo per ottenere, col benestare dei parenti (la cugina di Stefania Pettini, uccisa a Rabatta nel 1974, ha già dato pubblicamente il suo ok) la riesumazione di alcune vittime del Mostro. Infine, non corrisponde al vero, come si legge in giro, che la traccia isolata su V3 non appartiene a nessuno dei personaggi coinvolti a vario titolo nei fatti: essa, più correttamente, non corrisponde al profilo di quei sospettati ai quali è stato prelevato il dna. Ed è tutto un altro paio di maniche: sommessamente, si fa notare infatti che non esistono campioni di dna di variegati individui finiti nelle indagini, nonché di Mario Vanni e Giancarlo Lotti, i due condannati con sentenza definitiva per aver commesso, in concorso con Pietro Pacciani, gli ultimi quattro delitti del Mostro.

INSOMMA, nessun fantomatico Mister X, nessuna sgangherata ipotesi di revisione del processo sulla triste scia mediatica di Erba, e nessun negazionismo agostano, letteratura digitale mostrologica impazzita permettendo, ma, qualora davvero non fossimo davanti a una contaminazione, solo l’ennesimo elemento a conferma della pluralità dei Mostro di Firenze, la più ferale banda di assassini del paese.

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