Quei pizzini “neoborbonici” di Messina Denaro
Dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro sono stati resi pubblici alcuni bigliettini, per tutti ormai pizzini, scritti a mano dal capomafia. Quello che fa più discutere è datato 15 dicembre 2013 e indirizzato, per il tramite della sorella Rosalia, all’altra sorella Patrizia e al nipote Francesco.
In questo pizzino il boss di Castelvetrano individua con straordinaria nettezza un rapporto di causa-effetto fra la “sopraffazione” della sua Sicilia da parte di “uno stato prima piemontese e poi romano” e il suo essere mafioso. “Siamo siciliani e tali volevamo restare” scrive. Ogni nuovo arresto per mafia ingrossa le file di coloro che “soffrono per questa terra” e non vogliono “far passare l’insulto, l’infamia, l’oppressione, la violenza”. Sono parole, perché dubitare?, scritte con convinzione e, non senza sorpresa, considerati gli studi troppo presto interrotti, anche in un buon italiano, congiuntivi e punteggiatura compresi; da fare invidia ai più noti autori neoborbonici, così spesso sgangherati nelle loro convulsioni pseudostoriche quanto nel lessico e nella grammatica.
Messina Denaro ha, dunque, fatte sue le tesi che hanno intossicato l’opinione pubblica meridionale facendo la fortuna di alcuni spregiudicati autori che si definiscono neo-meridionalisti.
Proprio negli stessi anni in cui i sedicenti neo-meridionalisti avviavano la loro campagna di falsa divulgazione storica, sul mercato editoriale italiano comparivano le opere dei piemontesi Lorenzo Del Boca e Gilberto Oneto che facevano a gara nella demolizione del Risorgimento, senza per questo rinunciare ai più triti pregiudizi antimeridionali. Il libro più noto di Del Boca si conclude con un capitolo dal significativo titolo “La nazione che non c’è”, ma questo non gli impedirà di divenire nel 2001 presidente dell’Ordine dei Giornalisti di una “nazione che non c’è” e di restarvi in carica per un decennio.
Nello stesso anno, il 2010, in cui è stato pubblicato il più fortunato dei falsi testi di storia, con oltre mezzo milione di copie vendute, rilanciato proprio in questi giorni, Gilberto Oneto, leghista molto vicino a Gianfranco Miglio, il professore comasco che propugnava la secessione della Padania dall’Italia, mandava in stampa “La strana unità” con sottotitolo interrogativamente retorico “Risorgimento: buono, inutile o dannoso?”. Non si può non rilevare la singolare circostanza di un concomitante risveglio, a Nord e a Sud, della distorcente e menzognera critica delle vicende risorgimentali che aveva accompagnato i primi anni dello stato unitario.
Singolare pure che, con poche distinzioni, le due narrazioni, geograficamente separate, si mescolino fra loro, si inseguano e si assistano vicendevolmente.
Tuttavia, mentre sono ben comprensibili le ragioni leghiste per la causa della secessione, ora prudentemente messe da parte a causa della ritrovata vocazione nazionale del partito di Salvini, ben più difficile è darsi conto del controcanto meridionale che prosegue a dispetto di ogni seria verifica storica, assecondando oggettivamente il desiderio di separazione tuttora vivo in una parte del Paese.
Il pizzino ritrovato nell’archivio dei Messina Denaro ci consente almeno di dire che, anche indipendentemente dalle loro volontà, le fantasie di certi autori neoborbonici sono divenute grottesche giustificazioni tra le mani e sulle penne dei mafiosi e che l’indipendenza del Mezzogiorno minacciata dagli stessi incauti agitatori è un obiettivo fatto proprio dalla criminalità organizzata.
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